Matt Damon: «Al Festival di Cannes ho pianto di gioia»

Matt Damon: «Al Festival di Cannes ho pianto di gioia»

Su un red carpet ci sono le wanna-be-star, le celebrity e poi c’è una categoria a parte, quella degli dei dell’Olimpo hollywood, i pochi prescelti, gli eletti, i divi veri. Ecco, di quest’ultima categoria esclusiva fa parte di Matt Damon. Quando arriva lui al Festival di Cannes (6-17 luglio) non ce n’è davvero per nessuno: tutti gli altri passano sullo sfondo. E non perché lui sgomiti sotto i riflettori o faccia il brillante ad ogni costo. I veri fuoriclasse non hanno bisogno di dimostrare niente, sono così e basta.

Ora più che mai la Croisette ha bisogno della presenza di un nome di serie A come il suo per dimostrare che lo showbusiness statunitense ancora ci tiene a mostrarle lealtà, nonostante le restrizioni. Di questa gloriosa partecipazione, per essere onesti, il merito va in gran parte alla produzione dell’ultimo film, “La ragazza di Stillwater”, presto disponibile anche nelle sale italiane. La maggior parte delle riprese si è svolta in Francia, in particolar modo a Marsiglia, prima del lockdown e il regista Tom McCarthy ha voluto offrire un omaggio alla nazione che l’ha ospitato. E così ecco qui il Premio Oscar di Genio ribelle, in tutta la sua proverbiale affabilità, in concorso alla kermesse, con grande sollievo ed eccitazione generale.

Durante l’incontro con la stampa internazionale non ha nascosto le sue emozioni per il ritorno a calcare non solo le scene ma anche gli eventi cinematografici in presenza.

Cosa ha provato tornando al cinema?
«Mi sono commosso fino alle lacrime, è stato talmente intenso da sentirmi sopraffatto, come se fosse il primo festival di tutta la mia vita. Certo, Cannes è anche il più iconico evento cinematografico al mondo, ma quest’edizione è ancora più significativa, lo ricorderò per tutta la vita come una rinascita. Persino il tappeto rosso mi sembrava irreale, come se lo stesse attraversando qualcun altro».

A che punto della carriera si sente?

«Prendo il mio lavoro come una forma d’artigianato. Più film faccio e più miglioro. All’inizio della carriera accettavo qualsiasi lavoro, pur di pagare le bollette, e impiegavo moltissime energie in cose che non mi aiutavano affatto nelle performance. A 25 anni ho sentito dire ad Anthony Hopkins che il metodo diventa più “economico”, con minore dispendio di forze. Aveva ragione: oggi lavoro lo stesso ma in maniera più intelligente. Ho capito che bisogna trovare la strategia e il processo che funziona per te».

Quale regista compare nella lista di quelli con cui vorrebbe lavorare?
«I nomi s’indovinano facilmente tutti sognano i più grandi, ma se continuassi a collaborare con i registi con cui ho avuto modo di lavorare allora mi considererei fortunato».

Quale criterio sceglio per i copioni?
«Decido solo in base al nome del regista, a prescindere dal suo stile. Cerco sempre di arrivare preparato, di mettermi al servizio del film maker».

Mi fa un esempio?
«Per Invictus ero per sei mesi in Sud Africa con un accento davvero pesante. Il primo giorno sul set Clint Eastwood mi ha detto che “era buona la prima”. Io mi sono avvicinato e gli ho rispettosamente detto che potevo fare meglio la scena, lui mi ha guardato e mi ha risposto: “Perché mai? Vuoi davvero far perdere tempo a tutti?”».

Qualcuno che aveva un approccio opposto?

«C’è chi preferisce la ripetizione. Mi è capitato con Robert De Niro: dovevamo girare con la bobina e ciascuna durava 11 minuti, quindi quando finivano dovevamo cambiarla. Ecco, lui ha usato quattro bobine, quindi tre quarti d’ora durante i quali ha ripetuto sette battute in continuazione, senza fermarsi. Io ero lì accanto alla macchina da presa ed ero talmente fuso che non mi sembrava neppure che parlasse in inglese. Lui, invece, aveva una disciplina di ferro».

Lei ha fatto sia blockbuster che film indie, quali preferisce?
«Per me restano entrambi importanti, a prescindere dalla grandezza del set. Le storie che preferisco sono quelle che scrivo da solo e nascono da un’idea che mi è frullata nella mente, con cui mi connetto a livello profondo. Come attore sono un lavoratore a progetto, ma non sempre ti senti legato a quello che ti propongono. Tutt’altra faccenda, invece, riguarda un progetto che segui dall’inizio alla fine».

Come s’inserisce La ragazza di Stillwater nelle sue scelte?
«Mi ha colpito che parlasse di una parte molto specifica dell’America, dove la gente fa lavori manuali pesanti. Nessuna scelta è lasciata al caso, persino il tipo di jeans incide sulla postura ed è scelto per evitare bruciature. Sono tipi massicci, ma senza la tartaruga: di solito arrivano nei cantieri dopo le superiori e mettono da parte soldi nell’età adulta, per poi usarli anche in droghe e alcool».

Ne ha conosciuti alcuni?
«Ne ho incontrato vari, ho vissuto un paio di mesi in zona prima dei ciak e siamo stati anche a cena da qualcuno, con il tradizionale barbecue incluso. Ad un certo punto è arrivata la figlia, ha preso la chitarra e si è messa a suonare canzoni da parrocchia e per finire arriva la sfida di tiro al bersaglio con pistole vere».

Alessandra De Tommasi, Leggo.it

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