Il giornalismo si regge sulle famose “cinque W“, che sarebbero gli interrogativi attorno a cosa (what?), chi (who?), dove (where?), quando (when?), perchè (why?). In REC, che ha esordito ieri sera su Rai Tre, si danza con le prime quattro, mentre la quinta fa tappezzeria. Si raccontano minuziosamente i fatti e il tempo in cui avvennero, si mostrano i protagonisti e i luoghi; ma praticamente nulla si almanacca e si documenta circa il “perché”. E così (prendiamo uno per tutti il primo dei casi presentati) apprendiamo che un Tizio, con soldi di sospetta provenienza e ufficio in Svizzera, si esercita nella compravendita di aziende in crisi, facendo ogni volta un affarone (forse) e collezionando marchi diversi per confezioni plurime (di biscotti, pane, latte e detersivi) prodotti dalla stessa mano. Questione per il tribunale consumeristico di Trefiletti, non fosse per la natura sospetta del denaro che sospinge il frenetico attivismo dell’imprenditore-prenditore.
Il flusso di informazioni, un vero ben di dio di notizie, deriva tutto dalle carte giudiziarie di qualche indagine in corso e a volte anche da qualche processo concluso con patteggiamento e, dunque, con ammissione di colpevolezza. Siamo, al dunque, a un giornalismo divulgativo di notizie e circostanze (“ehi gente, ci sono dei furboni che vanno in giro a fare il gioco delle tre aziende, forse con soldi sporchi”) che lavora come complemento mediatico del lavoro dei magistrati, spettacolarizzandolo con le solite domande lanciate all’interlocutore sorpreso in strada, a quello già lontano, all’altro che butta giù il telefono; con le comparsate di Vanne Marchi d’occasione e di qualche Scilipoti. Oltre che curando assai la veste grafica.
Ben fatto e interessante, ovviamente (e premiato dall’auditel con 6% e passa di share), ma non esattamente quel giornalismo di inchiesta che è tale se scopre qualcosa per conto proprio, ponendosi a monte del lavoro di inquirenti e giudici. Sicché, restando inevaso il Why?, il discorso resta un po’ fine a se stesso, come se Saviano si fosse limitato a narrarci la carte giudiziarie di Cantone e non avesse compiuto il lavoro di “rivelazione” della struttura degli interessi, dei sogni e dei bisogni che alimentano la camorra. Che così è diventata Gomorra e cioè un’idea che ha sostituito i luoghi comuni sui napoletani con cui fino allora si usava liquidare tutte e cinque le W della criminalità campana. Detto in altro modo, non pensiamo che l’inchiesta debba per forza consistere nello scoprire fatti, e che anzi sia inchiesta per davvero quando si misura sulle connessioni e sulle sintesi interpretative. Senza le quali il pubblico è lasciato solo e riempie quel vuoto con i pregiudizi pret a porter di cui dispone, senza compiere alcun salto critico. Il salto che diciamocelo, fa la differenza col passatempo.
Stefano Balassone, Il Fatto Quotidiano