Il romanzo di Gramellini approda sul grande schermo: vere scene d’autore ma il racconto non è sempre coinvolgente
C’è un bel salto da Sangue del tuo sangue a Fai bei sogni pur portando entrambi la firma di Marco Bellocchio: se il primo, presentato l’anno scorso a Venezia, si offriva allo spettatore orgoglioso della propria sorprendente imprevedibilità, il secondo, scelto per inaugurare ieri (tra gli applausi) la Quinzaine des réalisateurs, procede lungo i binari di una più tradizionale linearità narrativa. Si sente che alle spalle del secondo c’è il romanzo best seller di Massimo Gramellini con il suo percorso di svelamento, e che tutto questo in qualche modo ha finito per indirizzare anche le intenzioni del regista, che pure l’ha sceneggiato senza ricorrere all’autore letterario ma collaborando con Edoardo Albinati e Valia Santella. Anche se si riconosce pure la mano personalissima del regista, il suo modo di raccontare e, in alcune scene come nell’apparizione fulminante di Piera degli Esposti, il suo inconfondibile gusto per il sarcasmo.
Il film racconta, con numerosi salti avanti e indietro nel tempo, lo scavo nella memoria del quarantenne Massimo (Valerio Mastandrea) alle prese con il buco nero della propria infanzia, quello di una notte in cui perse la mamma (Barbara Ronchi). Per un attacco cardiaco «fulminante» gli disse il padre (Guido Caprino) e questa spiegazione servì più o meno a tacitare le sue curiosità. Ma anche ad accrescere il rimpianto per una figura molto amata e molto idealizzata, cui il film dedica molte scene struggenti. È uno dei temi tipicamente bellocchiani e uno dei momenti più convincenti del film: il ricordo ambivalente per una mamma a volte dolcissima a volte assente e lontana, che all’improvviso è uscita dalla vita del figlio senza «spiegazioni» e che s’intreccia nella memoria con l’immagine di una casa grande e vuota, troppo simile a quella che abbiamo visto nei Pugni in tasca o le Sorelle Mai per non capirne le risonanze d’autore. La solitudine dell’infanzia, i complicati rapporti con la famiglia, la figura autoritaria del padre, la «perdita» della madre… sono tutti temi che risuonano dal film alla filmografia di Bellocchio e che danno a questo Fai bei sogni un suo indubbio spessore autoriale.
A stridere un po’ — per il mio gusto — sono le scene dove il film segue più da vicino la biografia del protagonista e ne spiegano la carriera giornalistica, come la parentesi a Sarajevo. Sarebbe probabilmente bastato l’episodio, frutto della fantasie degli sceneggiatori, dell’incontro con l’industriale simil-Gardini (interpretato da Fabrizio Gifuni) per spiegare il suo rapporto con la professione e i suoi scrupoli. Così come non si dimenticano gli incontri del giovane Massimo (Nicolò Cabras quando è bambino, Dario Dal Pero quando è adolescente) con i due preti affidati a Roberto Di Francesco e a Roberto Herlitzka dove si ritrova la tipica capacità bellocchiana di raccontare il pietismo peloso e l’intelligenza ambigua che contraddistinguono la sua personale visione della Chiesa.
Così alla fine il film dà l’impressione di seguire (troppo?) i sussulti ondivaghi della memoria, a volte coinvolgenti come quando racconta un bisogno d’affetto mai apertamente confessato (da bambino perché non temi di perderlo, da adulto perché hai troppa paura di un rifiuto) a volte meno quando i nodi narrativi del film (la carriera professionale, certe figure femminili, ma anche lo svelamento sulla fine della madre) sembrano stridere per il contrasto tra la materia melodrammatica e il modo sempre un po’ contratto e razionale con cui sono affrontati, tutto in levare (come il modo in cui scopriamo il legame con la dottoressa interpretata da Bérénice Bejo). E che finiscono per lasciare al film quel senso di sospensione e di incompiutezza che probabilmente è il vero rovello della vita del protagonista.
Il Corriere della Sera