Una figlia, un ex marito, un ex compagno. L’attrice catanese, sentimentalmente è molto libera. Professionalmente, invece, è parecchio occupata. Si divide tra due set, ha un film in uscita, due spettacoli teatrali in cantiere. E una fiction presto in onda: dal 16 aprile sarà su Raiuno con “L’Aquila – Grandi speranze”
Nella penombra di uno studio con carta da parati beige e scrivania in disordine, un esperto di identikit porge un plico di foto a una donna sulla cinquantina, ingessata in un tailleur verde scuro. Lei le scorre tutte. Su alcune si sofferma, su altre sorvola veloce con un impercettibile movimento della capigliatura cotonata. Arrivata all’ultimo scatto, posa l’intero pacco sul tavolo. Lo copre con la mano sinistra su cui spicca, ancora, la fede. Solleva il volto, altero nel dolore, e dice: «È lui».
Ha riconosciuto il killer del marito.
Lei è Donatella Finocchiaro. Appena il regista Aurelio Grimaldi urla: «Stop! Buona!», l’attrice corre a cambiarsi. Entra in camerino che è una signora: nel Delitto Mattarella interpreta Irma Chiazzese, vedova di Piersanti, ucciso da Cosa Nostra nel 1980 durante il suo mandato di presidente della Regione Sicilia. Esce che pare tornata ragazza: svolazzante in un abitino bordeaux, sbarazzina con la treccia di lato. «Ci facciamo una pasta?», domanda con voce squillante e accento siculo. «La porto nel mio bistrot preferito di Palermo». Trotterelliamo fino a Bisso, nella centralissima via Maqueda.
Durante il tragitto sono rari i secondi di silenzio: la 48enne catanese, senza trucco e senza trucchi, racconta il momento spumeggiante che sta vivendo. Si è lasciata da poco con il compagno, e padre di sua figlia, Edoardo Morabito. Ma, anziché autocommiserarsi, si sente «liberata». Nina, un putto biondo e riccioluto di 4 anni e mezzo, è qui con lei in Sicilia: si tratterranno qualche mese perché Donatella sta girando due film: Il delitto Mattarella e Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Subito dopo sarà al cinema con Nonostante la nebbia di Goran Paskaljević, dove interpreta una donna che accoglie a casa propria un bambino siriano. Sempre di accettazione parlano gli spettacoli teatrali che porterà in giro per l’Italia: Lampedusa, concertato a due con Fabio Troiano sul tema dell’immigrazione, e Benedetta, in cui calca la scena insieme a una ex detenuta del carcere di Vigevano. Prima che questo turbinio di set e palcoscenici abbia inizio, dal 16 aprile la vedremo su Raiuno, diretta da Marco Risi, nella serie tv L’Aquila – Grandi speranze.
Il terremoto è avvenuto nell’aprile 2009: esattamente dieci anni fa.
«Sì, ma la storia è ambientata un anno e mezzo dopo: io e mio marito, Giorgio Tirabassi, siamo due medici a cui, la notte del disastro, è sparita la figlia. Nel contempo, arriva un impresario romano, Luca Barbareschi, molto desideroso di iniziare a edificare».
Avete girato tra le macerie?
«La città è inesistente. Gli aquilani vivono in palazzine prefabbricate e senza storia. Pare ci siano impedimenti burocratici per la ricostruzione del centro. C’è un’indagine in corso e spero che la fiction aiuti a riportare l’attenzione su una situazione accantonata».
Un po’ come è successo per il caso Cucchi dopo l’uscita del film Sulla mia pelle?
«Magari! Noi tendiamo a dimenticare in fretta. Ben vengano il giorno della memoria, le commemorazioni di Falcone e Borsellino, un film come quello su Piersanti che, a parte essere il fratello del presidente della Repubblica, è poco celebrato».
Sergio Mattarella le piace?
«Non è male, soprattutto rispetto a chi governa ora. Lo vorrei più coraggioso, ma so che, per ruolo, deve essere super partes. L’ho studiato: sono laureata in Giurisprudenza, in diritto costituzionale ho preso 27».
Che avvocato sarebbe diventata?
«Penalista».
Le è spiaciuto lasciare?
«Per niente: mentre frequentavo il tirocinio in uno studio legale mi sono iscritta alla scuola di teatro dello Stabile di Catania. Non ci ho messo molto ad appassionarmi alla recitazione».
E a decidere di rinunciare all’avvocatura?
«È stato più duro: l’idea di abbandonare una professione sicura per un salto nel vuoto mi teneva sveglia la notte. Sapevo che avrei deluso mio padre».
Lui cosa desiderava?
«Proteggermi, credo. Non sa le battaglie che ho dovuto combattere per la libertà: a mio fratello, di 9 anni più giovane, è stato permesso di studiare all’estero. Io, femmina, a Catania dovevo rimanere. Solo piangendo sono riuscita a strappare qualche permesso».
Quale?
«Quello di andare a ballare. Mi ricordo il corridoio di casa mia a Gravina: mio padre urlava e mi lanciava le chiavi di casa. Mi facevo scendere i lacrimoni e ottenevo un’ora in più in discoteca. Ho imparato a recitare così. Era severissimo ma, ora che sono mamma, certi suoi divieti li capisco».
È preoccupata per sua figlia?
«Per il mondo in cui cresce, pieno di uomini aggressivi che ti sottopongono a violenze fisiche e psicologiche. Quante donne si lasciano convincere dal proprio compagno di non valere nulla? Quante perdonano uno schiaffo perché dopo arriva il mazzo di fiori? Ma liberiamoci di questi uomini! Stiamo benissimo anche da sole. Quando ho divorziato dal primo marito (l’attore Bruno Torrisi, ndr), sono rimasta single quattro anni e non sono mai stata meglio. Dobbiamo essere tutte femministe perché siamo troppo lontane dalla parità, economica e affettiva. Io cerco di spiegare a mia figlia che, oggi, Cenerentola, Biancaneve, la Bella Addormentata non passerebbero anni ad aspettare il principe azzurro: diventerebbero imprenditrici, parrucchiere, insomma conquisterebbero l’indipendenza».
Discorsi importanti per una bambina dell’asilo.
«Nina è talmente sveglia! Sa qual è il suo cantante preferito? David Bowie. È tutto quello che avrei voluto essere io alla sua età: chiacchierina, generosa, sicura di sé, solare».
Lei com’era?
«Grassottella, timida e permalosa. Mio cugino mi chiamava “elefante” e io ci rimanevo male. Recentemente mio padre mi ha mostrato una foto di me imbronciata con i pugni sui fianchi: “Eri sempre così”, ha detto».
Come si chiama suo padre?
«Nino».
Ha regalato alla bimba il nome del nonno?
«No, è stato un caso: era l’unico che piaceva a me e al mio ex compagno».
Ex?
«Ci siamo separati».
È stato difficile?
«Con una figlia, sì: il rapporto scricchiolava anche prima, ma ho aspettato che Nina fosse un po’ più grande. Comunque meglio una mamma single e allegra che una costretta a sopportare il marito, come ha fatto mia madre».
Era una donna infelice?
«Infelice no: amava mio papà. Ma qualche rimpianto lo aveva: da ragazza lavorava in uno studio di architettura, le piaceva, era brava. Ha avuto i figli, mio padre le ha chiesto di stare a casa e lei ha accettato».
È stata lei a stimolarla a emanciparsi?
«No, era la classica chioccia. Mio padre, invece, se prendevo 28 anziché 30 mi teneva il muso. Alzava sempre l’asticella per farmi saltare più in alto».
Le aspettative paterne le creavano ansia?
«Moltissima. Prima di un esame, mentre aspettavo che chiamassero il mio nome, mi veniva la tachicardia. Ogni volta credevo di morire».
Ne ha mai parlato con qualcuno?
«Ho fatto un percorso di analisi e uno di bioenergetica: sbloccando le contratture del corpo, sciogli anche i nodi dell’anima. Lo consiglio, soprattutto agli uomini».
Perché agli uomini?
«Perché tanti giustificano le cavolate che fanno con i traumi subiti da bambini. Li abbiamo subiti tutti i traumi, dopo 30 anni, però, basta! Curatevi. Io ora mi prendo una pausa, poi vorrei innamorarmi di nuovo. Ma devo trovare un maschio illuminato».
Com’è un maschio illuminato?
«Non teme la parità con la compagna ed è libero dalle incrostazioni del passato. Oddio, riconosco che noi donne cambiamo quando diventiamo mamme: il neonato è il nostro interesse primario, pensiamo di essere le sole a sapercene occupare. Mettiamo da parte il marito, magari lo sminuiamo pure perché non prepara le pappe bene come noi. A quel punto, l’uomo si sente emarginato. E frigna».
Soluzione?
«Stabilire la parità, fuori e dentro casa. Quando l’ho capito io, era troppo tardi».
Nina Verdelli, Vanity Fair