C’era una volta a Hollywood lo studio system, il sistema delle major che faceva il bello e il cattivo tempo sul grande schermo: da un lato le “Big Five” Paramount, Mgm, 20th Century Fox, Warner Bros e Rko, dall’altro le “Little Three”, Universal, Columbia e United Artists. In otto tenevano in mano il 95% del business del cinema negli Stati Uniti, prima industria e primo mercato cinematografico al mondo. Con produzione, distribuzione e sale di proprietà, film e autori che mettevano d’accordo pubblico e critica, da Via col vento a Casablanca, passando per Orson Welles e Alfred Hitchcock. Tre quarti di secolo dopo, lo studio system è un ricordo sbiadito: benvenuti nell’era della screen economy, concetto forse più fluido, di sicuro più ampio all’interno del quale rientrano tutte le attività economiche che ruotano intorno allo schermo. Grande o piccolo, fisso o portatile che sia.
C’è ciò che resta delle major di Hollywood dopo ripetute aggregazioni: le sette “sorelle” Comcast Nbc Universal, Sony, The Walt Disney Company, 21st Century Fox, Time Warner, Lions Gate Entertainment e Viacom. Poi c’è il nuovo mondo delle conglomerate hi-tech: da Apple ad Amazon, da Alphabet a Facebook e Netflix. Queste ultime, da piattaforme di servizi, si stanno trasformando sempre di più in media company, attraverso produzione di contenuti originali, intrattenimento o informazione. Le major, per tutta risposta, reagiscono cercando aggregazioni con forza ancora maggiore, quasi ad alzare un muro a difesa dei cataloghi, il bene più prezioso in loro possesso. E provano a rispondere colpo su colpo, lanciando le proprie piattaforme di distribuzione. «La screen economy – spiega Emilio Pucci, fondatore e direttore dell’E-media Institute di Londra – si articola in quattro segmenti: gli operatori media tradizionali, i produttori di hardware, gli operatori delle Tlc e le piattaforme digitali». Una partita globale che si gioca essenzialmente sulle due sponde del Pacifico, «tra la grande intraprendenza – continua Pucci – delle società native digitali che negli ultimi anni hanno guadagnato un’enorme massa critica e gli operatori tradizionali che provano a fare quadrato aggregandosi».
La grande corsa alle aggregazioni
Le cronache di queste ultime settimane sono eloquenti. La partita in fase più avanzata è senza dubbio la fusione da 85,4 miliardi di dollari tra AT&T, colosso americano delle telecomunicazioni da 164 miliardi di fatturato che già controlla la pay tv Direct Tv, e Time Warner, conglomerata da 29 miliardi di giro d’affari con una library ricchissima. L’operazione è in bilico, perché l’Antitrust Usa per dare il via libera avrebbe chiesto la dismissione di Cnn, rete all news della galassia Time Warner piuttosto sgradita al presidente Donald Trump. Ma occhio anche alla partita parallela che vede Disney, major da 55 miliardi di dollari di ricavi, interessata alla 21st Century Fox (29 miliardi di fatturato). Il deal per un valore stimato intorno ai 60 miliardi potrebbe chiudersi nelle prossime ore e spazzare via dalla galassia di Murdoch una lista di pretendenti che spazia da Comcast Nbc Universal a Verizon. La “House of Mouse” da qualche anno si dimostra attivissima sul versante delle acquisizioni: rilevando prima la Marvel (2009) e poi la Lucasfilm (2012) ha arricchito enormemente il proprio roster di personaggi.
E da allora ha piegato sia le edizioni di Spiderman che la factory di Star Wars alla propria politica di massimo sfruttamento dei contenuti in repertorio. Tra produzione costante di titoli e merchandising. Vedi alla voce The Last Jedi, nono film del franchise Guerre Stellari che sta uscendo in questi giorni in tutte le sale del mondo. «Le scelte aggregative delle grandi case cinematografiche – spiega Francesca Medolago Albani, vicepresidente del Consiglio superiore del cinema e dell’audiovisivo – in questa fase non possono non essere lette come una sorta di reazione al protagonismo delle società over the top che investono in contenuti perché ne conoscono benissimo l’importanza».
Nel «regno» del contenuto
La profezia di Bill Gates, datata 1996, si è infatti avverata: nell’era della maturità di internet «content is king», il contenuto è re e governa sui massicci flussi di denaro che girano per la rete. E le piattaforme di distribuzione online sembrano tutte più o meno intenzionate a investirci. La più attiva è Netflix, prima a scommettere sui contenuti originali attraverso produzione di serie di successo come House of cards. Ma non è sola: Amazon, per esempio, ha acquistato i diritti del Signore degli anelli per trarne una serie da distribuire con il servizio Amazon Prime Video. E Facebook negli Stati Uniti sperimenta Watch, propria piattaforma di streaming con contenuti originali.
Si attendono le mosse di Alphabet, gruppo di Google e YouTube che intanto si starebbe concentrando sulla musica con il servizio pay Remix, ma per comprendere che il vento è cambiato basta vedere le trattative intorno alla distribuzione del nuovo film di 007: Apple e Amazon si sono proposte ai produttori Mgm ed Eon Pictures in alternativa alle major. Che, continua Medolago, «nel frattempo lavorano a proprie piattaforme di distribuzione per affrancarsi dalle over the top». Fa scuola, ancora una volta, Disney che ha negato il proprio catalogo a Netflix e nel 2019 lancerà un proprio catalogo straming. Con in esclusiva gli spin off di Star Wars.
La via delle «indie»
Con questo scenario ci sono maggiori o minori opportunità per le case di produzioni indipendenti? «Senza dubbio maggiori», risponde Marco Chimenz, ad di Cattleya. «Prima, per chi faceva il nostro lavoro, gli interlocutori erano le major e i canali televisivi. Adesso c’è una pluralità di soggetti interessati a film e serie». E soprattutto, secondo Francesca Cima di Indigo Film, «questo grande attivismo intorno ai contenuti è figlio di una crescente domanda da parte degli utenti che si muove attraverso la moltiplicazione dei canali di distribuzione». E se il sex gate che ha travolto Harvey Weinstein (uomo di fiducia delle major) e Kevin Spacey (volto di punta di Netflix) fosse figlio del braccio di ferro tra vecchi e nuovi padroni di Hollywood? C’era una volta Hollywood Babilonia. E a guardare bene c’è ancora.
Francesco Prisco, Il Sole 24 Ore