Drive My Car, dal racconto di Murakami un melodramma elegante fra teatro e sensi di colpa

Drive My Car, dal racconto di Murakami un melodramma elegante fra teatro e sensi di colpa

Torna dopo la Berlinale anche a Cannes 2021 il regista giapponese Ryûsuke Hamaguchi, ancora con un film elegante e struggente, Drive My Car, l’elaborazione del senso di colpa per un lutto fra lunghi tragitti in macchina e le prove di uno Zio Vanja teatrale. Tratto da un racconto di Murakami.

Un film sugli spazi, sui vuoti che si riempiono, che sia in una vecchia Saab 9000, in sala prove a teatro o lungo le coste di un gelido mare invernale del sud del Giappone. Drive My Car è l’adattamento diretto da Ryusuke Hamaguchi dell’omonimo racconto di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne. Dopo i tre episodi di Wheel of Fortune and Fantasy, il regista giapponese affronta la sfida di portare sul grande schermo uno dei maggiori scrittori del suo paese, costruendo un melodramma elegante, trattenuto e profondamente emozionante intorno al personaggio di Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima). Attore di fama e regista, accetta di dirigere Zio Vanja in un festival teatrale a Hiroshima, anche per allontanarsi dalla sua quotidianità a Tokyo, tormentata dalla difficile elaborazione del lutto per la morte improvvisa della moglie.

L’organizzazione impone di utilizzare un autista, anche se Kafuku è molto geloso della sua Saab 9000 ormai d’epoca, e usa i tragitti in macchina per ripassare le battute. Alla fine accetta di utilizzare i servigi di una giovane taciturna, solo dopo aver messo alla prova la sua guida.

I due vivono un percorso di avvicinamento, dai taciturni tragitti notturni per tornare in hotel alle prime parole, poi diventate chiacchiere. Hamaguchi dedica molto tempo nel descrivere l’importanza dei silenzi, al di fuori della sala prove, e delle parole del testo di Cechov, quando a teatro seguiamo interminabili sessioni fra gli interpreti della pièce, recitata in giapponese, ma anche coreano, cinese e in lingua dei segni da una giovane attrice muta. Una prova di iniziazione del regista nipponico che ci conduce per due ore in cui delinea la sofferenza del protagonista per il lutto e quello così intenso del testo di Zio Vanja, che Kafuku si ostina a non voler interpretare per non soffrire troppo intensamente la sovrapposizione con il proprio dramma personale.

Il film scorre fra i due momenti che scandiscono le giornate (e nottate) nella regione di Hiroshima del protagonista, mentre lo spettatore è premiato per la sua pazienza con un’ultima ora davvero di altissimo livello, in cui il peso dei silenzi e dei traumi, dentro e fuori della scena, contribuiscono a creare un legame sobrio eppure di grande portata emotiva fra le due anime perse nelle strade di un Giappone livido, invernale. In un paese con enormi problemi nell’esprimere sentimenti ed elaborare il lutto, se non all’interno di rituali convenzionali, Drive My Car è un estenuante viaggio nella funzione catartica dell’arte, specie se accompagnata da una condivisione con chi ha vissuto qualcosa di simile. I due sono convinti, a ragione o meno, di non aver fatto quanto in loro potere per evitare la morte della moglie o della madre. 

L’interno della Saab è l’unico posto in cui riescono a sentirsi a proprio agio, capaci di aprire il cuore e la memoria, anche se si tratta di definirsi a vicenda assassini, perché “quelli che sopravvivono continuano a pensare ai morti, a loro maniera”. Siedono lontani, poi accanto, e infine le poche parole di sciolgono in un abbraccio liberatorio, ma sempre pudico, per darsi forza convinti che “ce la faremo”. Il melodramma si scioglie ancor di più, sempre con l’eleganza trattenuta tipica della mimica giapponese, con un memorabile momento finale sul palco, mentre alla fine Zio Vanja va in scena e un monologo di grande intensità viene recitato con la lingua dei gesti, nobilitando il silenzio di una carica emotiva quasi insostenibile, amplificata dal contatto sporadico delle dita sul palmo della mano.

Comingsoon.it

Torna in alto