Pietro Castellitto: la serie su Totti, la passione per Nietzsche. E mi piace andare oltre i conformismi

Pietro Castellitto: la serie su Totti, la passione per Nietzsche. E mi piace andare oltre i conformismi

Pietro Castellitto, 30 anni a dicembre, figlio d’arte (suo padre è Sergio Castellitto, sua madre Margaret Mazzantini) è un antiborghese cresciuto in un ambiente privilegiato, spiazzante e analitico, libero nei suoi pensieri. Il suo obiettivo è: avere talento dunque poter essere ascoltato e andare controvento. È il personaggio del momento. Ha due candidature ai David di Donatello per I predatori: migliore regista esordiente e sceneggiatura originale. E ha appena concluso su Sky la serie su Totti (in media ascolti record di 1 milione 100 mila spettatori, ora on demand e in streaming su Now): «Francesco mi ha detto, le pause sono quelle mie».

Quali sono i commenti di romanisti e laziali che l’hanno colpita di più?

«I romanisti hanno ritrovato l’essenza del capitano, per me è anche un modo di stare tranquillo quando cammino per Roma (sorride). I laziali mi hanno detto che per prepararmi al meglio ho dovuto ripetere tre volte la terza media. Alla fine è un uomo che malgrado soldi e successo ha tenuto intatta la sua personalità. Non c’era nulla di scontato, Totti non è Maradona…La camorra, la vita spericolata».

Cosa risponde a chi, cercando il sosia di Totti, ha commentato che lei è troppo diverso fisicamente…

«Allora potevano dare la parte a lui, allo stesso Totti. Avevamo pensato al trucco prostetico ma non aveva senso in un contesto dove nessuno lo aveva. E poi avrei avuto sei ore di trucco, diventava un altro lavoro».

I David?

«I premi arrivano quando hai fatto le cose da tanto tempo. Ero più euforico e avevo i piedi meno per terra quando ho finito di girare o quando ho saputo che l’avrei girato; lì hai il mistero di quello che accadrà, ora ho la consapevolezza che devo farmi venire un’idea per continuare».

Lei è più attore o autore?

«Più autore. Recitare è una vacanza, arrivi a progetto già costruito, mi piace quando il personaggio ha un suo passato, anche se non c’è nel film, perché comprendi altre cose. Per fare l’attore devi saper dire le bugie e fare gli scherzi».

Cosa vuol dire?

«Se non scherzi più, il tuo percorso è stato sacrificato alle consuetudini e al perbenismo dominante. Negli Anni ‘20 Al Capone faceva soldi gestendo alcol e droga, oggi li fai perpetuando il bene. Penso ai milioni incassati dagli studi legali attraverso il monumento all’ipocrisia del Me Too, battaglia sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia gliela sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi; io vedo la volontà di potenza che sfrutta questa crociata morale per ingrassarsi, sto parlando come amante di Nietzsche, che studiai a Filosofia. Ho anche compiuto un viaggio in Germania sulle sue tracce, ho dormito nella casa museo dove ha ideato Zarathustra…».

L’annosa questione dell’«essere figlio di»?

«E’ un problema che hanno sempre avuto gli altri, poi l’hanno fatto venire a me, un senso di oppressione per cui non sono visto come Pietro qualunque cosa faccia. Questo mi ha spinto a bruciare le tappe, ad avere una voce mia, che dipende anche dalla genetica, dall’educazione, dai genitori e da una percentuale di imprevedibilità».

Chi è più presente dei suoi genitori?

«C’è un buon equilibrio, non facciamo calcoli, ci diciamo tutto soprattutto quando litighiamo. Non parliamo in modo preponderante di cinema e libri. Mi sono sentito amato, mai privilegiato, mi hanno sempre detto che le cose dovevo conquistarmele, che avrei avuto molti detrattori. Nessun attore vuole che il proprio figlio lo segua perché è tutto aleatorio. Una parte della libertà l’ho portata anch’io in casa, mi riferisco a una intolleranza alla prepotenza intellettuale. Ho detto cose di sinistra in ambienti di destra e viceversa, anche se è più difficile dire cose di destra in ambienti di sinistra».

Parla come suo padre…

«Nietzsche in un aforisma dice che ognuno di noi è il seguito di nostro padre. Il conformismo del cinema? Ci si odia molto ma non esce mai, neanche nei film, la maggior parte (per inerzia e pigrizia), non sono portatori di un pensiero. Il presupposto è di cavalcare la morale dominante. Una volta gli artisti erano fuorilegge, oggi siamo invasi da damerini che copiano l’America, pulendosi la coscienza autocriticandosi».

Nei «Predatori» assistiamo a uno scontro…

«Tra borghesia illuminata e nostalgici. E’ una critica mascherata alla nostra epoca. Mi chiedo per quale motivo continuiamo a prendercela coi ragazzi che fanno il saluto romano e non siamo riusciti a creare nuovi simboli. Così, criticando, campiamo di rendita, è questa la vera decadenza. Ed è una forte contraddizione che, a costo di farci qualche nemico o sembrare pazzi, dovremmo dire».

Qual è il cinema con cui è cresciuto?

«Crimini e misfattidi Woody Allen, Festen, Le onde del destino, tutto Scorsese, Spielberg, C’eravamo tanto amati C’era una volta in America».

Sarà in «Freaks out» di Gabriele Mainetti.

«Sono uno dei quattro del circo che, nella Roma del 1943, cerca una via di fuga dalla città occupata dai nazisti».

Valerio Cappelli, corriere.it

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