«Era ora». Nella vita, incredibile ma vero, lo è diventata a 41 anni, con la nascita del primo nipote, figlio di Naike. Il prossimo Natale la vedremo nonna al cinema. A 66 anni. Ornella Muti è nel cast di The Christmas Show di Alberto Ferrari per Viva Productions. «Abbiamo appena finito le riprese in Puglia. È una commedia natalizia pulita, divertente, un po’ fantasy ma anche collegata alla realtà. In più con un tocco speranza. Quella che non abbiamo quasi più». Una storia corale, intorno alla coppia Raoul Bova e Serena Autieri e figli. «Sono la mamma di Serena e suocera di Raoul. Una tipa allegra un po’ sopra le righe, anche come nonna. Molto felice di partecipare a questo gioco». Entusiasta di fare la nonna. «Prevale la pigrizia, si fa fatica a considerare gli attori al di là dello stereotipo». Il suo è granitico. Dici Ornella Muti e l’associazione è immediata. «Invece sono Francesca Rivelli e non vedo l’ora, visto il mio mestiere, di incontrare cose nuove, che mi sorprendano e spaventino anche: mi butto, a costo di rompermi in mille pezzi».
Ha iniziato che non aveva ancora 15 anni, 50 di carriera.
«Ho vissuto una stagione straordinaria, c’erano registi particolari, abbiamo avuto dei grandissimi. Enorme talento e consapevolezza. Non c’era nulla di stonato».
Se ripensa a quella ragazzina che sentimenti prova?
«Tenerezza, certo. All’inizio per me è stato complicato, di mio sono infantile, ingenua, vengo da una famiglia di classica educazione italiana, non ero armata per fare questo mestiere. Le donne non sono quasi mai preparate, pensi di entrare nel mondo del lavoro e poter essere te stessa, affronti un cammino pensando di poterlo fare alla pari degli uomini, ma non ci viene data quest’opportunità. Comunque sei donna, non ti considerano alla pari. Neanche se ti chiami Christine Lagarde».
In cosa sente la differenza?
«La disparità degli stipendi, per esempio. Ma lo percepisco ogni giorno, non mi sento presa sul serio. E trovo ci sia ancora molta ipocrisia nel nostro paese. L’ho notato dalle reazioni di fronte alle azioni di “Vulva art” di Naike, a sostegno delle donne abusate. Ho fatto anche io dei video con lei, una cosa piuttosto forte: c’è ancora molta strada da fare. Sono stanca di questa finzione, del perbenismo. Peggiorato dai social, che in più spazzano via tutto».
Quasi cento titoli all’attivo, ama rivedersi?
«No. La vita dell’attore è molto complessa, siamo un po’ tutti degli insicuri. Non amo bearmi di me, mi fa orrore. Se rivedo una cosa penso: avrei potuto fare meglio. Oppure: non mi capiterà più una cosa così bella».
Personaggio preferito?
«Ne ho fatti di bellissimi. Forse Vincenzina di Romanzo popolare. Mario Monicelli era davvero avanti. Grande modernità e libertà di pensiero. E quelli con Marco Ferreri. Un autore così di rottura. Purtroppo la memoria è corta, mi sembra sia stato dimenticato. Sono stata a un festival organizzato a Los Angeles da John Landis su Fellini: voglio che i giovani lo conoscano, mi ha detto. Ecco vorrei che anche da noi ci fosse questa sensibilità. Per dire, anche Tognazzi, attore pazzesco, non mi pare sia ricordato come merita».
L’abbiamo vista in tv in «Sirene» di Cotroneo. La serialità non la tenta?
«Molto. Ma non me la propongono. Adoro le serie spagnole, attori di tutti generi nei ruoli più diversi, c’è posto per tutti. Ora sono felice che rifacciano Boris».
Una carriera costellata di occasioni. Alcune perse. Rimpianti?
«Nessuno. Sono fatalista. Sono stato molto in America, non ci sono rimasta. Non ho lottato. Sono rimasta incinta, ho preferito seguire la mia vita, non la carriera. Non era il posto per me, lì ho visto l’altra faccia della medaglia, la smania di esistere, la solitudine. Io cercavo altro».
Ovvero?
«Sapere che quando torni dal set se porgi la mano trovi qualcuno che la prende con amore. Se non hai la tua casetta dove rifugiarti, è dura. La mia è in Piemonte, sul cucuzzolo di una collina».
Come ha vissuto questo anno?
«Per noi la pandemia è cominciata prima del Covid-19 con la morte del compagno di mia figlia Carolina. Poi nei mesi scorsi mia madre. È stato veramente pesante. Il lavoro, certo, aiuta. Ora ho in programma una cosa molto bella in teatro. Incrociamo le dita».
Stefania Ulivi, Corriere.it