Le affinità elettive e sentimentali. Un matrimonio — anacronistico in questi tempi di legami liquidi — lungo 65 anni. Un amore inesauribile per la donna amata, compagna e anima di tutta una vita, un legame che sopravvive anche alla morte. Sono questi i temi che hanno affascinato Pupi Avati che si prepara a girare un film sulla famiglia Sgarbi. Non Elisabetta e Vittorio, ma i loro genitori, Nino e Rina Cavallini. Il cuore della storia nasce dal libro scritto da Nino Sgarbi (ha debuttato come autore a 93 anni…) Lei mi parla ancora (che è anche il titolo provvisorio del film): «Una lettura che mi ha conquistato — racconta Avati —. Io che ho sempre saccheggiato la mia vita personale a piene mani in tutti i film che ho realizzato, mi trovo per la prima volta ad affrontare l’autobiografia di un altro. La chiave del film è anche nel rapporto che si instaura tra il ghost writer (interpretato da Fabrizio Gifuni) a cui Nino racconta la sua vita: è un uomo che all’improvviso rimane solo in questa grande villa che sembra il Vittoriale per le opere — di qualità e in quantità — accumulate. Si confronta con un giovane scrittore, sposato per soli tre anni e già separato, che ha della vita una visione diametralmente opposta: la diffidenza iniziale evapora negli insegnamenti che il “vecchio” saprà dargli».
Anche se non è vita sua, Avati si riconosce: «Io ho avuto un’esperienza matrimoniale non esente da turbolenze, ma ho imparato che sulla lunga distanza è impagabile aver avuto a fianco una persona che ha condiviso il tuo intero percorso. Lo dico senza che lo senta mia moglie: nel suo sguardo ci sono tutte le età della mia vita, lei è l’hard disk che contiene tutti i file della mia esistenza e se sparisce quell’hard disk ti senti perso. Penso che gli uomini siano più impreparati alla perdita rispetto alle donne, si trovano sgomenti senza un punto di riferimento. In questo film racconto la bellezza di percorrere insieme una strada lunga, la poesia di mantenere fede a quel “per sempre” che non si promette più ed è uscito dal nostro lessico». Dunque la vera rivoluzione è resistere? «Il legame lungo è un investimento sul futuro».
Rina Cavallini è interpretata da Stefania Sandrelli, nei panni di Giuseppe «Nino» Sgarbi c’è Massimo Boldi: «È una straordinaria storia d’amore raccontata in modo emozionante, commovente e delicato — spiega l’attore —; il tratto forte del racconto sta nel come una coppia possa rimanere unita anche dopo la morte di uno dei due. Con Pupi Avati ho già lavorato 25 anni fa in Festival, e mi ha convinto subito: mi ha detto che mi farà vincere l’Oscar. Ho sempre fatto cinepanettoni, questa volta spero di vincere almeno un piccolo premio». Con Vittorio Sgarbi si sentono spesso: «Ormai mi chiama papà…». Elisabetta Sgarbi ha collaborato con il regista condividendo con lui aneddoti e dettagli sulla vita di suo papà e sua mamma che hanno vissuto ininterrottamente dal 1950 a villa Cavallini Sgarbi (a Ro Ferrarese), dove saranno girate molte scene. «Boldi ha una vena molto spinta sul comico, mio padre invece aveva un’ironia sorniona, sulfurea, dolce — riflette l’anima della casa editrice La Nave di Teseo —: dovrà affrontare una trasformazione importante, ma Pupi da una vita scopre e trasforma attori. Sono sicura che sarà una sorpresa». Avati è il regista giusto per raccontare questa storia: «Mio padre si rivedeva in quella capacità che Pupi sempre mostra di trattenere la disperazione che la vita genera, trasformandola nei sentimenti più belli: la malinconia, l’innamoramento, il senso della natura. Non c’è dubbio che esista un’affinità segreta, che poi è il senso della poesia della vita».
Vittorio Sgarbi vede in un amore «minimo» e «particolare» il racconto di un’epoca: «Penso che la loro storia sia la testimonianza di una generazione, di quelli nati nel primo quarto del Novecento, dove le liti coniugali si componevano sempre. Era una società diversa, il divorzio non c’era, prevaleva una cultura cristiana e sentimentale che allora non era affatto rara, per questo la loro storia è allo stesso tempo esemplare, ma non unica, perché rappresenta un’epoca: allora la stabilità sentimentale non era un’eccezione». Guardando a sé con ironia trova anche il lascito sentimentale dei suoi genitori: «Il loro lungo legame mi ha fatto capire che il matrimonio è meglio non praticarlo».
Renato Franco, Corriere.it