A vent’anni dalla morte, la moglie spiega perché De André è ancora tanto amato e citato, anche dalla musica più trasgressiva. Tanti punti in comune, una differenza
Questa intervista è tratta dal numero 2 di Vanity Fair in edicola fino a martedì 15 gennaio 2019.
Succede ogni anno, piazza Duomo a Milano si riempie di gente. Nonni, ragazzini, cantano per ore le canzoni di Fabrizio. Lo considero l’omaggio più bello, lo chiamano canto anarchico». Dori Ghezzi, 72 anni, anche questo 11 gennaio non ci sarà: «Non partecipo per rispetto, per non spezzare la magia». A vent’anni dallo scomparsa del marito Fabrizio De André, conserva quel carattere che le è valso la dedica di Hotel Supramonte («una donna in fiamme»). Alterna la vita a Milano, dove cura la memoria del cantautore genovese con la Fondazione De André (l’ultimo lavoro è il volume Anche le parole sono nomadi), ai weekend sulle colline di Chiavari dalla figlia Luvi, 41, che l’ha resa nonna di Demetrio, 4, senza dimenticare l’azienda agricola in Sardegna («lì custodisco i ricordi più belli»). Non disdegna le novità, nemmeno in campo musicale: «Ascolto di tutto, anche la trap. Sono attenta a quello che fanno i rapper di oggi, trovo interessante il loro linguaggio, anche quando si esprimono in modo estremo. Di attaccare le nuove generazioni non ho nessuna voglia, noi siamo stati fortunati: abbiamo vissuto il periodo storico più facile».
Da Salmo a Tedua, passando per Fedez che canta al figlio Leone: De André è spesso oggetto di citazioni.
«Probabilmente viene percepito come autentico. Ha raccontato se stesso e quello che ha vissuto senza filtri. Se diventasse anacronistico, vorrebbe dire che ce la passiamo meglio. Le contaminazioni sono inevitabili. Per chi viene dopo non è mai facile proporsi in modo personale».
Ha raccontato di aver conosciuto The André, il ragazzo che, incappucciato, spopola su YouTube, cantando con la voce di Faber i brani di Ghali o della Dark Polo Gang.
«Ha fatto capire che in fondo Fabrizio e i rapper di oggi dicono le stesse cose. Certo è un po’ difficile credere che oggi si sarebbe espresso con quelle parole, ma di sicuro le avrebbe comprese. Io ho notato un po’ di insofferenza verso le donne, e questo dispiace. Per Fabrizio la donna era l’emblema del sacrificio, mi chiedo cosa sia cambiato».
Ai teenager del 2019 cosa si può dire ancora di De André?
«Non è mai incompatibile. Chi lo conosce per sentito dire, chi grazie ai genitori, chi l’ha scoperto per caso: ognuno ha la sua storia».
La sua qual è?
«Ho vissuto tantissime vite, e se è vero che si invecchia dai 75 anni in poi faccio in tempo ad aggiungerne altre».
«De André ha rivoluzionato la musica italiana, portando la poesia nel testo di una canzone: una grande fonte di ispirazione. Noi trapper, rivoluzionari nel linguaggio, gli saremmo stati utili per capire cosa interessa oggi ai giovani. Noi cantiamo la donna moderna che vuole essere protagonista del suo tempo, ma anche vivere l’attimo. È tutto più complicato».
«Come Fabrizio, cerco sempre di dare a una storia una carezza poetica, ho un occhio di riguardo per i più umili. Ma oggi gli audiolibri di De André per essere colti dal grande pubblico avrebbero dovuto cambiare forma. Noi rapper siamo meno aulici, a volte banalmente volgari. Un tempo si era volgari, ma in modo più originale».
Stefania Saltalamacchia, Vanity Fair