«Smettetela di dire che Amy Winehouse era solo una tossica»

«Smettetela di dire che Amy Winehouse era solo una tossica»

Nel libro ‘La mia Amy’ l’amico di una vita Tyler James racconta la Winehouse che ha conosciuto: non una vittima, non un’icona sballata, ma una donna ossessionata dall’amore che sognava la normalità

«Vado letteralmente fuori di testa quando, ancora adesso, mi capita di sentir dire, magari in qualche locale o in giro per strada: “Amy Winehouse? Grande voce, ma era solo una tossica che si faceva di crack”. E ti assicuro che mi succede spesso». Questa frase apre, come un passe-partout, molte porte che si affacciano sull’universo – ormai legato solo al ricordo – di Amy Jade Winehouse, di cui il 23 luglio 2021 ricorre il decimo anniversario della scomparsa.

A pronunciarla, in una piacevole conversazione telefonica nel caldo di questo inizio luglio, è l’autore del nuovo volume La mia Amy (edito da Hoepli): Tyler James, ovvero il soulmate, il migliore amico, il coinquilino e l’anima gemella (non in senso romantico, ma spirituale, se mi si passa il termine) di Amy; la persona che le è stata vicina praticamente in ogni istante, dagli esordi fino alla morte, il ragazzo che ha scelto di dedicarsi a lei, a costo della propria promettente carriera da cantante. Un vero confidente, partner in crime e pilastro nella breve vita della singer londinese.

Alla luce di quanto detto, sgombriamo subito il campo dalle suggestioni in offerta speciale, come ad esempio quella del Club 27, ormai buona per articoli da tabloid o pezzi tappabuchi-acchiappaclick che hanno Wikipedia come fonte, nella migliore delle ipotesi. Amy Winehouse è morta a 27 anni, ha lottato per molto tempo con i demoni delle più classiche dipendenze, della bulimia e di quel too much too soon che da sempre rappresenta un pericolo letale per le giovanissime star, ma in tutto questo non c’entra nessun Club 27 (o sedicente associazione con altra numerazione).

La vulgata alimenta la versione, complice il tempo che trascorre senza fare sconti a nessuno, di una Amy caduta sotto il peso dei propri vizi: una ragazza succube di droga e alcol, oltre che di un rigido controllo paterno (alla Britney Spears, per fare un paragone d’oltreoceano), finita nel conteggio delle tante vittime degli eccessi. Questo punto di vista, non totalmente fuori mira – chiariamolo – finisce però per pesare più di tutto quanto, talento compreso. Questo forse per un retaggio più o meno inconscio: il famoso senso di colpa del cristianesimo, per cui i comportamenti non allineati e il malessere che si esprime in devianza dalla buona norma saranno sicuramente puniti e porteranno alla rovina. Tutto il resto non conta più, di fronte alle offese alla morale, al perbenismo e/o a qualche precetto raccattato dalla Bibbia o giù di lì.

Ma chi era davvero Amy Jade? A questo proposito Tyler ha le idee molto chiare: «Diverse persone hanno provato a raccontarla con libri e documentari», spiega, «ma ognuno ha dato una versione diversa, un punto di vista che differiva in molti aspetti. Io ci sono stato per tutto il tempo, Amy era la mia migliore amica e per me guardarla era come guardarmi in uno specchio… per questo ho deciso di raccontare le cose come stavano, per onorare la sua memoria, ma anche per mostrare davvero tutta la verità su di lei: nel bene e nel male. L’ho fatto seguendo un consiglio che proprio Amy mi ha dato un sacco di volte… mi diceva sempre che ogni volta che avevo un problema o ero tormentato da qualcosa, dovevo scriverlo, metterlo nero su bianco. Ho iniziato a farlo, su pezzetti di carta o salvando delle note nel mio telefono… ho cominciato il giorno stesso della sua morte: erano appunti, pensieri, cose di cui non ho parlato a nessuno per molto tempo e che solo qualche anno fa ho preso a organizzare in forma di libro».

Torniamo alla domanda: chi era Amy? Questa ragazza talentuosissima, figlia di una farmacista e un taxista appassionato di musica (la biografia spicciola è ampiamente rintracciabile online, non starò certo a raccontarvela per l’ennesima volta) tanto per iniziare non ha mai voluto diventare famosa, a differenza di papà Mitch. Lei desiderava fare la cantante jazz, non la star mondiale: «Odiava essere famosa. Non accettava la fama, che era come una prigione… avevamo spesso lunghe discussioni notturne su questo argomento. Lei cercava il modo di sottrarsi a tutto quello che la fama comportava, voleva evitarla, desiderava trovare un modo di fuggire, perché nella vita c’è molto di più. Lei era semplicemente innamorata della musica… era una musicista, una vera artista, come ormai se ne vedono poche», dice Tyler.

Non è quindi affatto paradossale il fatto che lui identifichi come i momenti più felici nella vita di Amy gli inizi, gli early days quando loro due, reduci dalla Susi Earnshaw Theatre School, muovevano i primi passi nel mondo della musica: giravano insieme a esibirsi in piccoli posti, facendo interviste nelle radio locali, condividendo stanze di alberghetti senza pretese e prendendosi cura l’uno dell’altra, magari fumandosi assieme qualche canna e bevendo qualche bicchiere per darsi coraggio, senza pensieri… solo col futuro da scartocciare e assaggiare.

Tyler continua: «Amy mi ha insegnato una cosa e penso di essere molto fortunato ad averla imparata… lei mi diceva sempre che nella vita conta solo essere felici e l’unica cosa che importa è l’amore. Amy dava all’amore un’importanza che trascendeva tutto… pensa al modo totale e disperato in cui amava Blake (Fielder-Civil, l’ex marito, nda). Quando si ama, nell’idea di Amy, bisogna amare al 100% e non farlo solo quando le cose vanno bene». Già, Amy cercava l’amore, quello romantico, all’antica se vogliamo, anche se vissuto nel suo modo viscerale. Come dice Tyler: «Più di ogni altra cosa voleva una famiglia, essere moglie e avere figli. Tutto ciò che desiderava era la normalità».

A torto la liaison con droghe e alcol, come dicevamo, è divenuta la chiave di lettura a senso unico del personaggio Amy Winehouse, per molti. In effetti le sostanze hanno avuto un peso determinante nella sua vita e carriera, ma Tyler ci tiene a mettere le cose in chiaro: «È stata autodistruttiva, sì, per un periodo. Ma non era questa la sua essenza e soprattutto non lo era più verso la fine: non smetterò mai di rimarcare questa cosa. La dipendenza è davvero una cazzo di malattia maledetta. Ed è durissimo vincerla. Lei era finalmente sulla strada giusta per superarla, perché aveva tutte le qualità per farlo: l’intelligenza, la forza, la consapevolezza. Ed è inaccettabile che la gente, sapendo che era stata invischiata con crack ed eroina anni prima, pensasse che non ne sarebbe mai uscita. Invece l’aveva fatto, aveva raggiunto questo grosso risultato e nessuno sembra mai riconoscerle questo merito. Stava combattendo ancora contro l’alcol e ce la stava facendo. Però la gente credeva che ormai lei fosse bruciata, che avesse perso il senno e – peggio ancora – che avesse perso la sua voce. Questa è una cazzata enorme, del tutto falsa».

A questo proposito racconta, emozionato: «Devi sapere che la mia pelle si abbronza facilmente, anche se è una caratteristica che a me non piace proprio. Lei invece era molto invidiosa di questa cosa e mi diceva: “Cazzo, io passo ore e ore a rosolarmi e tu esci di casa, fai due passi per strada e sei abbronzato!”. Amy adorava prendere il sole e ogni singolo giorno, nell’ultimo periodo, si metteva sul lettino abbronzante e cantava. Davvero ogni santo giorno. Non cantava i propri pezzi o canzoni contemporanee… preferiva i vecchi standard jazz che aveva imparato da ragazzina e aveva ancora quella voce meravigliosa che io avevo ascoltato la prima volta a 13 anni, quando eravamo nella stessa scuola. Non aveva perso la voce, non aveva perso il senno e stava anche seguendo un buon regime salutista. Si vedeva che stava molto meglio fisicamente… il fatto è che quando smetti di bere e ci ricadi, sottoponi il tuo corpo a uno stress incredibilmente pesante, ed è ciò che l’ha uccisa».

«In quei giorni, se qualcuno mi avesse detto che la mia Amy di lì a poco non ci sarebbe più stata, non ci avrei creduto perché lei aveva intrapreso un percorso in cui si poteva vedere un finale completamente diverso. Se mi avessero detto: “Fra tre giorni Amy sarà morta”, avrei pensato che erano tutti matti. Non toccava eroina o crack da almeno tre anni e stava lavorando nel modo migliore per allontanarsi definitivamente anche dall’alcol. Non voglio incolpare nessuno – la famiglia, il music biz o altro – per l’accaduto. Incolpo, semmai, la dipendenza e la fama per come sono andate le cose. La fama è un cazzo di problema enorme e, come ho già detto, Amy la odiava. La sottoponeva a una pressione troppo forte. Quel livello di notorietà, che alle persone a volte capita di toccare, non è realmente desiderabile. Chi lo brama è perché non lo ha mai raggiunto – e probabilmente non lo farà – e non sa cosa significhi. È devastante. Avevamo i paparazzi accampati fuori di casa 24 ore su 24».

rollingstone.it

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