È il momento di far rumore

È il momento di far rumore

Hai presente quando a scuola tutti ti dicono che hai una bella voce ma tu non ci credi e poi, un giorno, vinci Sanremo? Oggi, la mission del Cantautore aostano è spostare l’attenzione sui collaboratori preziosi che a ogni concerto rendono possibile l’impossibile

La scuola è stata fondamentale per il mio avvicinamento alla musica. Alle elementari ce la facevano studiare e ci facevano suonare la diamonica, una vera arma impropria carica di saliva. Alle medie i miei genitori mi aiutarono a scegliere un indirizzo musicale che mi portò a suonare, molto male, per
ben due anni, addirittura il violino, strumento meraviglioso e complicatissimo. I primi tempi sono ore e ore di lamenti insopportabili.

Quando scoraggiato andai a dire a mia madre che volevo smettere di studiarlo, accolse con celata gioia la mia decisione.

L’avevamo fondata con alcuni compagni di scuola per suonare soprattutto alle assemblee di istituto e ricevemmo diversi consensi, anche da parte dei professori. In tanti venivano a dirmi che avevo una bella voce, cosa che io non pensavo assolutamente.

 Un giorno, in classe, ero in odor di interrogazione di filosofia. Come al solito non ero granché preparato e speravo con tutto me stesso di non sentir pronunciare il mio nome. Proprio mentre la professoressa scorreva con la penna l’elenco dei nostri nomi, bussarono alla porta e la vicepreside fece capolino invitandomi a chiamare tutti i componenti della band, a tornare a casa per
prendere gli strumenti e a ritornare immediatamente per improvvisare un concertino dei nostri in una palestra affollata da centinaia di studenti, riunitisi per la consegna degli attestati del corso di inglese avanzato «Cambridge».

Non potevo crederci e ovviamente obbedii. Giovanni, mio compagno di banco, nonché grande amico, si offrì di accompagnarci con la sua 500, diventando, a quel punto, ufficialmente, il nostro tour manager. Ricordo la gioia di quei momenti e le risate euforiche nel viaggio di andata e ritorno.

Tornati a scuola, ci dirigemmo subito verso la palestra, provando a ripassare al volo i brani che avremmo suonato. L’ingresso era alle spalle di questa fila interminabile di professori seduti di fronte ai ragazzi. Erano molto vicini alla porta e quando il bassista della band, precedendomi, entrò, fu costretto a sollevare il basso per non rischiare di colpire qualcuno dei docenti. Quel mare di ragazzi che avevamo davanti vide quel gesto come un incitamento ed
esplose in un boato che mi accolse proprio sulla soglia.

Fu un’emozione incredibile. Sentii la pelle restringersi, i brividi in tutto il corpo e un pensiero si fece strada nella mia testa con prepotente chiarezza: «Io, nella vita, voglio fare questo». Dopo quell’ingresso da rockstar ci posizionammo davanti al nostro pubblico e, collegati gli strumenti a due piccoli amplificatori (grazie all’aiuto di Alessandro, che a quel punto diventava ufficialmente il nostro backliner), cominciammo a suonare. In prima fila c’era la mia professoressa di inglese, praticamente il mio 4 fisso, e mi venne da ridere al solo pensiero che tutti i brani che avrei cantato sarebbero stati ovviamente nella lingua che insegnava.

La prima era One degli U2 e finito l’intro toccava a me. «Is it getting better». Boato, e da quel preciso istante il sorriso della professoressa divenne un 7 fisso sul registro. «Io, nella vita, voglio fare questo».
Attento a ciò che desideri giovane Antonio, che la strada è lunga e dura, piena di notti insonni, di incertezze. Questo è un lavoro serio, che si fa studiando, se stessi e gli altri, affiancandosi a professionisti che proveranno ad amplificare il meglio che hai da offrire, prima giù e poi su di un palco. Lavoratori eccezionali che spesso restano nell’ombra e rendono tutto possibile. Un po’ come Giovanni e Alessandro, ma ovviamente molto più preparati.

In un momento così difficile, così pieno di incertezze, voglio stare al loro fianco e, per una volta, essere io ad amplificare la loro voce.

VanityFair

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