«Troppi chef cucinano il nulla». Feroce? Qualche volta. Esigente sempre. Ma soprattutto autorevole, colto e piacevole da leggere, grazie allo stile efficace e diretto che distingue un buon giornalista dal Barnum dei food blogger e dalla spocchia dei critici che non criticano mai. Milanese, 69 anni tra qualche giorno, sposato dal ’79 con Clara, due figli quasi quarantenni, Raspelli è un pezzo di storia dell’informazione gastronomica. Cominciò come cronista di nera. Fu il primo ad arrivare sotto casa di Calabresi, il giorno in cui il commissario fu assassinato. Nel 1975, grazie a un’idea di Cesare Lanza, fu anche il primo a firmare recensioni negative di ristoranti, sul Corriere d’informazione. Uno choc, per l’epoca. Raspelli fu tra i fondatori del Gambero rosso e dei “Ristoranti dell’Espresso”, che poi diresse dal 1996 al 2001, negli anni migliori di quella guida. Scrive sulla Stampa e sul nostro giornale, conduce su Canale 5 la seguitissima Melaverde che sta per tagliare il traguardo dei vent’anni e delle 600 puntate. Gli è sempre piaciuto il buon cibo, ma non gli piace affatto la piega che stanno prendendo tanti chef, tante guide, tanta informazione.
Raspelli, lei e i suoi colleghi critici gastronomici siete diventati inutili: ormai anche in tv i cuochi li giudicano i cuochi.
«Colleghi? Di colleghi ne ho pochissimi. Se scivoli nell’organizzazione di eventi, concorsi e fiere che coinvolgono cuochi e ristoratori, ti sarà poi difficile criticarli. Ormai tutto è avvilito a marchetta, non solo nella critica gastronomica, anche nell’informazione. Comunque io non sono un critico gastronomico ma un cronista della gastronomia».
Dunque non c’è più una guida di cui ci si possa fidare. Ma i mali della ristorazione sono soprattutto altri.
«Vede, c’è una malattia psichiatrica che fa mangiare e digerire il legno, il vetro e la carta, ma è una malattia. In tanti ristoranti pare che l’unico obiettivo sia stupire, con piatti che sembrano dipinti di Pollock e accostamenti folli. Leggo recensioni che esaltano piatti di cui io inorridisco».
Ad esempio?
«Ho mangiato capesante avvolte in guanciale e annegate in una crema di liquirizia. La liquirizia mi piace, ma come digestivo. E perché affondare una palla di cioccolato nell’olio extravergine d’oliva? E poi la mania del caldo-freddo, del dolce-salato, del tabacco, del peggiore aceto balsamico onnipresente, dei piatti ‘destrutturati’, delle ‘arie’, dei ‘fumi’ e dei menù inutilmente poetici, incomprensibili. Dietro tutto questo c’è il nulla».
Eppure lei sostiene che oggi in Italia si mangia meglio che in passato.
«Sicuramente. Nel ’75, quando iniziai, la mia rubrica si chiamava ‘faccina nera’: erano tanti i ristoranti da stroncare, anche se nessuno aveva mai osato farlo e la novità fece scandalo. Le cose sono cambiate con la diffusione delle guide, con Marchesi, con un pugno di grandi ristoranti che hanno creato quella che impropriamente fu chiamata nouvelle cuisine italiana. Nacquero Arci gola e Slow food. Anche la clientela è molto migliorata».
Quanto è giusto spendere per una buona cena?
«Quanto è giusto spendere per una grande passione? Non sono mai impazzito per le belle auto, ma mi è sempre piaciuto mangiare bene. Da ragazzo, nel 1966 a Parigi, spesi 29mila lire a cena alla Tour d’Argent, e 33mila lire il giorno dopo, a pranzo da Lasserre. Non ho mai rimpianto quei soldi».
Quali sono i cuochi più bravi degli ultimi 50 anni?
«Marchesi, Vissani, Valentino Marcattili del San Domenico. Aggiungo Nadia Santini. All’estero la più bella esperienza della mia vita a Gerona, dai fratelli Roca».
Parliamo di lei. Li paga ancora quei tremila euro all’anno di assicurazione sul gusto e sull’olfatto?
«Certo, sono i miei strumenti di lavoro. E, toccando ferro, spero di non incassare mai i 500mila euro di massimale. Sarebbe una debacle. Per me mangiare è la felicità, anche se ho avuto molti problemi. Ero 128 chili, sono passato a 88 e poi a 102. Oggi ne peso 99. Mi sono fatto allentare il bendaggio gastrico per soffrire meno a tavola».
Quella polizza fu una trovata per farsi pubblicità.
«Certo, anche. Volevo far parlare di me e ci sono riuscito. Ma il gusto e l’odorato sono molto più a rischio di quanto si creda. Pensi a un incidente, a un’anestesia sbagliata, alle complicanze di un raffreddore curate male. È importante soprattutto l’olfatto. Provi ad assaggiare un piatto col naso tappato: di sapori ne sentirà pochi».
Le querele non le sono mai mancate.
«Eccome. Ristoratori, cuochi, produttori di vino. Ne ho ricevute 20 o 25. Condanne mai. L’ultima assoluzione è di un mese fa».
È stato anche minacciato.
«Nel ’79 mi arrivò in redazione una corona di fiori: ‘Al nostro caro Edoardo’. Erano gli anni di piombo e mi occupavo anche di cronaca nera e di Br. Arrivarono subito volanti, Digos, antiterrorismo, ma avevo capito che a dare fastidio era stata una recensione. Risposi sul giornale: ‘Volevo ringraziare chi mi ha mandato la corona di fiori ma anche rassicurarlo: la sua cucina è sicuramente fetente ma non mortale’. Accadde anche di peggio».
Che cosa?
«Un amico poliziotto che non vedevo da tempo mi disse: sai che ti ho salvato la vita? Mi spiegò che, dopo la mia stroncatura di un locale nella zona dei Navigli, una certa gang voleva uccidermi. Ci ripensarono e decisero di gambizzarmi, poi si fecero convincere a lasciar perdere. Ma io mica lo sapevo che quel ristorante apparteneva a uno dei più celebri delinquenti dell’epoca: Francis Turatello».
Non la imbarazza essere riconosciuto nei ristoranti che va a provare?
«È il mio grande rimpianto. Bisognerebbe restare anonimi. Prenoto sempre con un falso nome, ma non basta. Se in un locale vedo che sono l’unico ad avere il cestello del ghiaccio, non va bene. A quel punto so che dovrò essere ancora più severo. Invidio Valerio Massimo Visintin, critico del Corriere a Milano, che in tv e in pubblico si presenta sempre con una calzamaglia nera calata sul volto, così può entrare a viso scoperto in qualsiasi locale senza essere riconosciuto. Fa recensioni spesso negative, come me. Nessuno le fa più, e questo è grave, perché così salta ogni difesa dei consumatori. Ma nello star system di cuochi e food blogger, di guide e marchette, questo non interessa a nessuno»
È vero che sta diventando vegano?
«Mia moglie dice che, se continuo così, lo diventerò tra 40 anni. Sono sempre in giro per fattorie, tra piccoli animali che fanno tenerezza. Conigli, maialini. Così qualche volta, a tavola, mi viene da pensare che sto mangiando una vita che è stata tolta. Ci penso. Però continuo a mangiare».
Mauro Bissini, Il Resto del Carlino