Gwen Stefani: «“Just a girl”? Non pensavo diventasse l’inno del Me Too»

Gwen Stefani: «“Just a girl”? Non pensavo diventasse l’inno del Me Too»

Pubblicare nuove canzoni nel 2020 inizialmente non rientrava nei piani di Gwen Stefani. Nel corso dell’ultimo anno però la popstar, oggi affermata artista solista (e coach di «The Voice America»), si è riavvicinata alla scrittura. Per dimostrare di essere «sempre la stessa ma con qualcosa di nuovo» si è lasciata ispirare dalle sue radici musicali, quelle sonorità ska, punk e reggae che hanno caratterizzato i suoi anni passati insieme ai No Doubt con cui ha raggiunto il successo mondiale negli anni Novanta. Il primo frutto di questo salto indietro nel tempo compiuto – via Zoom – insieme agli autori Ross Golan e Luke Niccoli è un nuovo singolo: Let me reintroduce myself. Titolo scelto non a caso.

Perché ripresentarsi al pubblico?

«Quando sei in giro da tanto tempo inizi ad avere qualche insicurezza: ti chiedi ad esempio a chi potrebbe interessare la tua nuova musica, se qualcuno ha ancora voglia di ascoltarti. Quando ho incontrato Ross abbiamo parlato della mia vita, di cosa mi ha ispirato, di quello che volevo fare, delle mie insicurezze. Mi ha proposto il titolo Let me reintroduce myself e ho pensato fosse davvero una buona idea: volevo tornare alle mie radici ska e reggae che portano gioia alla persone. Con il reggae poi è come se il mondo intero fosse connesso a questo genere, non importa da quale cultura provieni. Ed è stato il filo conduttore di tutta la mia vita».

Che tipo di ragazza era quando ha iniziato a fare musica?

«Ero molto protetta, sono nata e cresciuta in una famiglia cattolica (di quelle che vanno in chiesa ogni settimana). Ho altri tre fratelli: Eric, il maggiore, è il più creativo, ha un talento speciale. Ci faceva ascoltare le band che gli piacevano — come i Madness, i Selecter, gli Specials — tutti gruppi inglesi poco conosciuti dove vivevamo».

Suo fratello ha poi dato vita ai No Doubt

«È stato proprio Eric a dirmi che avrei dovuto cantare nella band. Facevamo un genere lontano dal pop, e siamo andati avanti per nove anni. Poi ho scritto una canzone, Just a Girl: non credevo che qualcuno l’avrebbe mai ascoltata invece è stata trasmessa in radio. E adesso eccoci qui».

«Just a Girl» e le altre canzoni di «Tragic Kingdom» (1995) hanno consacrato i No Doubt a livello mondiale: cosa ricorda di quel periodo?

«Sono accadute molte cose quando è uscito il disco. Mio fratello se ne è andato dopo essere stato nella band per nove anni e ho rotto con il mio migliore amico (il bassista del gruppo, Tony Kanal, ndr), con cui stavo insieme da quando avevo 17 anni. In più vivevo ancora con i miei genitori e improvvisamente mi sono ritrovata a girare il mondo. Quando devi affrontare tutto ciò è difficile goderti il successo. Ma al tempo stesso proprio allora ho capito una cosa: quando salivo sul palco sentivo dentro di me che era come se fossi nata per farlo».

A proposito di «Just a Girl»: in molti considerano questo brano un inno femminista. Lo sapeva?

«Non ci avevo mai pensato mentre lo scrivevo, la cosa mi ha sorpreso. Avevo semplicemente parlato (in modo sarcastico) di quello che sentivo e di quello che tutte noi donne realizziamo ad un certo punto della nostra vita. Quando nasciamo ci sentiamo soltanto esseri umani. Poi con il tempo le persone iniziano a guardarci diversamente perché siamo ragazze: ci sentiamo strane, vulnerabili. Ma capiamo anche di avere molto potere».

Cosa prova quando canta oggi quella canzone nei suoi concerti?

«Mi sono sempre chiesta se avrei potuto interpretarla ancora, dato che non sono più una ragazza ma una donna. Però sul palco dello show che ho fatto a Las Vegas due anni fa mi sono accorta che il brano ha perfettamente superato la prova del tempo, anche alla luce delle cose che sono successe negli ultimi anni (come il movimento #MeToo). Sembra quasi abbia più potenza oggi che allora. Sono molto orgogliosa e grata di aver scritto una canzone in cui tutte le ragazze possano sentirsi rappresentate».

Arianna Ascione, Corriere.it

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