Arriva in sala l’8 febbraio con BiM dopo essere passato alla 67ma Berlinale Final Portrait di Stanley Tucci, basato sugli ultimi anni di vita dello scultore e pittore Alberto Giacometti, magistralmente interpretato da Geoffrey Rush. Nel film c’è anche un convincente Armie Hammer, in risalita dopo il successo di Mine, nel ruolo dello scrittore e modello James Lord. Tra i due non manca certo alchimia, e il risultato è un film molto gradevole, dalla fotografia satura che evoca ricordi di un tempo passato, ma anche divertente grazie alla prova spontanea dei due attori. “Non volevo interpretarlo io stesso – spiega Tucci – mi avrebbe deconcentrato e inoltre sarebbe stato poco equilibrato, sarebbe sembrato un progetto di vanità personale, invece Geoffrey è grandissimo e ha anche molto senso dell’ironia, che è fondamentale perché Giacometti era, in effetti, anche molto divertente. E anche inquietante, per esempio quando diceva di avere la fantasia di stuprare e uccidere delle donne. Il film è basato su un libro, ‘A Giacometti Portrait‘, scritto dallo stesso James Lord, e ci sono voluti dieci anni per realizzarlo. Qualcosa l’abbiamo presa direttamente dal libro, altre da episodi ulteriori di cui ero a conoscenza. Dovevo certamente integrare la vicenda di base di due persone sedute una di fronte all’altra, pittore e modello, altrimenti sarebbe stato un film noiosissimo. Era basato sugli ultimi anni della vita dell’artista e in particolare su questo dipinto che non riusciva a finire. Credo un artista continuerebbe a lavorare alla sua opera in eterno, se non dovesse rispettare le consegne. Succede anche a me come regista, quando rivedo i miei film c’è sempre qualcosa che vorrei cambiare, ma cambia ogni volta, e non saprei dire mai esattamente cosa. D’altro canto amo molto dirigere, lo faccio da più di dieci anni e la trovo un’esperienza stimolante, specie quando hai a che fare con attori di questo calibro”. “Non è che mi sia dovuto impegnare poi tanto – scherza Hammer – lavorare con Rush è come giocare a tennis con qualcuno molto più bravo di te, non puoi che migliorare. Io ero il modello e Geoffrey dipingeva, quindi in sostanza si trattava di stare fermo mentre guardavo uno dei miei idoli recitare. Nemmeno ho studiato la parte. Sarebbe stata una perdita di tempo. Naturalmente il fatto che Stanley sia anche un grande attore aiuta tantissimo, perché conosce le nostre esigenze e sa come parlarci, di cosa abbiamo bisogno e come tirare fuori il meglio da noi”. “Abbiamo girato tutto molto velocemente e con solo due macchine da presa ₋ prosegue il regista ₋ pochissime luci artificiali e niente che ci potesse distrarre. Siamo stati attenti a inserire i personaggi nel loro spazio, come del resto faceva lo stesso Giacometti, spesso avvicinandoci molto alle facce degli attori. Nella mia testa era un film in bianco e nero, ma realizzarlo così ne avrebbe irrimediabilmente danneggiato la distribuzione, così ho preferito mantenere dei colori neutri che dessero un’idea di ‘tempi passati’, un film ‘new wave’, enfatizzando alcuni tratti come i rossetti o le insegne dei ristoranti solo in fase di color correction“. Inevitabilmente arriva anche la domanda su Donald Trump e sul rapporto tra gli USA e l’arte, ma Tucci preferisce non alzare troppe polemiche: “nessun film è in grado di influenzare il Presidente, ma in generale in USA il rapporto con le arti è sempre stato ambiguo, e immagino che questa amministrazione non lo supporterà. L’arte è fondamentale ma molti non se ne rendono conto e non la considerano importante per l’educazione“.
Cinecittànews