(di Alessandro Buttitta, shop TvZap Brutti, cattivi e ricchissimi grazie al richiami per anatre, ecco perché questi buzzurri trash piacciono tanto.
La Louisiana, ancor prima di esser conquistata televisivamente dai Matthew McConaughey e Woody Harrelson di True Detective, è stata la terra promessa dei Robertson, clan familiare protagonista di Duck Dynasty, improbabile docu-reality da poco giunto in Italia su Sky Uno (in onda ogni domenica alle 22.50). Il profondo sud degli Stati Uniti, quello più bigotto e conservatore, quello che impugna fucili e Bibbia con una disinvoltura a dir poco imbarazzante, viene prosaicamente mostrato in questo show estremo, capace di mostrare il lato più becero dell’american dream. Sì, perché non importa avere barbe lunghe e maltenute, vestiti che farebbero impallidire i bikers di Sons of Anarchy, un linguaggio scurrile da far schifo, per accumulare soldi su soldi, infischiandosene di buon senso e savoir-faire.
Nello stato che deve il suo nome a Luigi XIV Re di Francia, colui che si vantava di esser lo Stato fatto persona, raccontato a futura memoria da Alexandre Dumas nel ciclo dei suoi moschettieri, i Robertson hanno fatto fortuna producendo e vendendo richiami per anatre. Un impero da milioni di dollari, accumulati dal 1972 grazie alla lungimiranza negli affari del patriarca Phil, che non ha cambiato di una virgola il loro stile di vita. Caparbietà e strafottenza sono state premiate da A&E, canale di casa Disney, che ha cucito intorno al rotondo girovita dei Robertson un abito perfetto, un reality in grado di affermarsi nel giro di pochissimi anni come uno dei programmi più visti negli Stati Uniti, tanto da guadagnare copertine su copertine tra lo stupore generale.
Resta da chiedersi quali sono i motivi del successo di un programma come Duck Dynasty, quintessenza del trash, del piccolo schermo che compiacente genera mostri sacrificando la ragione all’altare dello share. Di valido, parlando a livello puramente televisivo, non c’è niente. Siamo di fronte a un programma girato male, montato peggio, interpretato dai protagonisti senza alcuna consapevolezza del loro ruolo. Sta proprio nel suo essere anti-televisivo, nel suo essere fuori da ogni logica (sul serio, un reality su dei milionari buzzurri che si sono arricchiti con i richiami per le anatre?) la chiave di volta di questo programma di dubbio gusto. I Robertson esagerano, sono spudorati, non riescono ad avere quella malizia davanti le telecamere che si intravede lontana un miglio in reality affini come Gli Osbourne o Al passo con i Kardashian.
I Robertson sono la faccia sporca di un paese con la puzza sotto il naso che preferisce costruire i suoi antieroi, immaginandoli affascinanti e complessi in serie tv dal forte impatto emozionale. I protagonisti di Duck Dynasty non sono figure iconiche, specchio delle contraddizioni di un’America in stato confusionale, ma tutto il contrario. Sono la polvere che si mette sotto il tappeto, una realtà che esiste ma che in tv si preferisce ignorare in nome del buon gusto e della seduzione per le grandi narrazioni. Il programma ha successo perché rappresenta una fetta di società che se ne frega bellamente dello storytelling televisivo, di cliffhanger vari ed eventuali, della serialità che fa rima con complessità. Duck Dynasty è invece la banalità che torna prepotentemente protagonista, è il reality che riesce a rappresentare senza rossore la mediocrità dilagante di un’America che non si vergogna di essere se stessa.