L’attore, celebre in tutto il mondo per il suo ruolo di Arthur Fonzarelli in ‘Happy Days’, nella serie tv premiata disponibile su Chili: “È la gigantografia di una rinascita”
“A settant’anni il mondo smette di cercarti. Resti tu, da solo, seduto accanto al telefono. E aspetti che prima o poi squilli”. La brillantina a quintali è sparita dai capelli; il fisico da Sylvester Stallone, stretto in un giubbotto di pelle, ora leggermente incurvato. Henry Winkler si è laureato alla Yale School of Drama nel 1970 diventando un’icona con il ruolo di Fonzie nella sitcom Happy Days, accanto alla motocicletta Triumph TR5 Trophy del ’49 e all’amico Richie (Ron Howard). Si è smarcato solo con l’ostetrico Dr. Lu Saperstein in Parks and Recreation e il dilettante avvocato difensore di Arrested Development. Ha appena vinto un Emmy, l’Oscar televisivo statunitense, come miglior attore non protagonista in Barry (disponibile su Chili). “È la gigantografia di una rinascita”, chiosa. “In Barry insegno recitazione a un killer e veterano di guerra, interpretato da quel fuoriclasse di Bill Hader, che ha scritto la serie con Alec Berg. La notte degli Emmy mi ha dato un bacio e ha detto: ‘Henry, torna a casa. Domani lavoriamo alla terza stagione'”.
Winkler, com’è cambiata Hollywood?
“È la solita giostra degli anni Settanta, chi fa il mestiere dell’attore lo sa. Ho imparato a essere tenace, sono diventato un Fonzie ‘zen'”.
Lavora molto?
“Finito Barry ho preso un treno verso Angoulême, nel comune di Cognac, e trascorso dodici giorni in compagnia di Wes Anderson, Benicio Del Toro e Tilda Swinton sul set di The French Dispatch. Che avventura! Il nuovo film di Wes lascerà tutti senza fiato. Tornato a Los Angeles, sono ripartito in tour per promuovere l’ultimo libro della serie Hank Zipzer sulla mia vita da dislessico”.
Dopo il successo di Barry il telefono torna a squillare?
“Sì ma non si sa mai. Io, per precauzione, quando finisco le riprese sgraffigno sempre qualcosa. A casa ho un museo della cera: la mia cera. Una giacca, un cappello e dei calzini per ogni personaggio che ho interpretato dal giorno in cui ho messo piede a Hollywood: 18 settembre 1973. L’Emmy non lo tengo in bagno come fermaporta. Se ne sta al centro della tavola da pranzo così, quando il postino bussa alla porta, capisce chi ha davanti (ride, ndr)”.
Si presenta ancora ai casting?
“Se vuoi una parte, devi alzare il sedere e prenderla. Ai provini sudo, mi sento giudicato dai giovani executive che non conoscono il mio lavoro. Avranno qualche anno in più del mio nipotino. Ha scoperto Fonzie su YouTube e l’unica cosa che ha detto è stata: ‘Nonno, ti tingi i capelli?'”.
Con le scuole che rapporto aveva?
“A Yale mi sono inventato un monologo shakespeariano di un tizio con il cane. Essendo dislessico, non riesco a memorizzare un testo intero. L’incontro con Stella Adler, la maestra di Marlon Brando, lo porto con me. Un giorno entra nella stanza e dice: ‘Mi convinca che su quel tavolo ci sono degli oggetti’. Pausa. ‘Ora lei è un artigiano, mi faccia vedere cos’ha’. Io, recitando la parte: ‘Ecco i miei arnesi’. Lei: ‘Non vedo niente’. Provo a convincerla ma lei sbotta: ‘Non vedo!’. Spazientito, rispondo: ‘Beh, problema suo'”.
Dice che la sua vita è un cerchio. Perché?
“Le ultime battute di Barry le ho dette nel teatro di posa numero 19 dei Paramount Studios. All’ultimo ciak ho capito: mi trovavo sullo stesso set dove Fonzie riparava moto e faceva il latin lover”.
Ce l’ha un po’ con John Travolta per via di Danny Zuko?
“Fonzie e Danny sono due brillantina men molto diversi. John ha fatto un lavoro incredibile con Grease, non mi ha rubato nulla. Sono due simboli politici del paese. Non parliamo di politica… L’ultima volta che sono andato a votare, il mio nome è rimasto fuori dal registro elettorale”.
Le piacerebbe interpretare Trump?
“Stavo pensando più a Michael Cohen, l’ex avvocato del presidente. Magari, se lo intervisto per il ruolo, mi racconta qualcosa sui rapporti tra emissari russi e il comitato elettorale. Il livello di stress, anche tra noi gente dello spettacolo, si è impennato del 100% per colpa della politica. Anche se a scuola mi chiamavano Cane scemo, una cosa l’ho capita: dobbiamo tutti lottare per un futuro migliore”.
Filippo Brunamonti, repubblica.it