Attorno a questa storiella letterariamente patetica, recuperata come script cinematografico, c’è una regia felpata modello anni ottanta di una vecchia volpe come James Foley che inonda di luci flou, calze berlusconiane sull’obiettivo della macchina da presa, e tempistica dilatata degli accadimenti da tramortire un bue
Che noia, che barba, che perdita di tempo. C’è qualcosa di più inconsistente di Cinquanta sfumature di grigio? Sì, Cinquanta sfumature di nero. Ovviamente parliamo del film, perché della fortunata saga letteraria di E.L. James si è detto e ridetto l’impossibile. Già si era al corrente di ciò che accade nella seconda parte delle “sfumature”. Mr. Grey (Jamie Dornan) torna mesto con la coda tra le gambe da Anastasia (Dakota Johnson) e le promette di essere un tantino meno invasato in termini di sottomissione a livello sessuale. La ragazza che ha appena iniziato a lavorare come tuttofare in una casa editrice alla fine accetta di tornare da lui, ma ad una serie di condizioni precise: niente regole, niente punizioni, niente segreti. Già perché il cuore di tenebra dell’intera saga è il passato oscuro di Christian Grey. Che, diciamolo subito, qui viene rappresentato con degli incubi notturni/flashback con sudorini sulla fronte e urla nel sonno da scuola elementare. Mamma tossica, botte subite, nascondiglio sotto al tavolo, pure bendato, Grey non ha avuto un’infanzia facilissima. Pena, dispiacere, dolore, provati giusto Anastasia che di questo megalomane iracondo, dalla curatissima e sviluppata muscolatura, è innamorata e continuerà a seguirlo fino all’anello di matrimonio.
In mezzo ci sono il giovane e aitante capoufficio di lei che quando ci prova pesante si ritrova licenziato da Grey che si è comprato la casa editrice; una ex sottomessa di Grey che appare come un fantasma con occhiaie, vestiti sbrindellati e la richiesta di essere ancora fustigata, ma che sempre da Grey viene internata; e l’apparizione che più Razzie Awards non si può di Kim Basinger nei panni di quella che ha iniziato al sesso Grey e che dispensa un unico consiglio alle future fidanzati/mogli di lui: “lasciatelo solo”. Attorno a questa storiella letterariamente patetica, recuperata come script cinematografico, c’è una regia felpata modello anni ottanta di una vecchia volpe come James Foley che inonda di luci flou, calze berlusconiane sull’obiettivo della macchina da presa, e tempistica dilatata degli accadimenti da tramortire un bue.
Cinquanta sfumature di nero è quindi un filmetto inesistente, in fondo semplicemente un thriller piccantino dove si attende che si palesi qualche pericolo esterno per l’esaltata coppietta multimiliardaria avvolta nel lusso sfrenato. Quindi non cercate alcun sforamento del limite nella rappresentazione della sessualità BDSM. Intanto perché di bondage nulla v’è nemmeno in cartolina; qualcosina di dominazione molto laccata prova senza successo ad affermarsi; mentre riguardo al sadismo e masochismo dei due protagonisti il marchese De Sade si sta rivoltando nella tomba. Quattro gli attimi assolutamente estemporanei, e confinati nel v.m.14 come un qualsiasi erotico con Edwige Fenech, di una dominazione edulcorata nei metodi e nelle finalità, riportata nell’alveo della normalità vs. malattia per “curare” Mr. Grey. Un paio di palline cinesi inserite nella vagina di lei mentre vanno a una festa (“No di dietro non le metto”, afferma Anastasia con piglio sì da dominatrice); una barra divaricatrice per le gambe di lei usata con atletismo degno di miglior causa; il classico “togliti le mutandine e passeggia senza”; infine, l’entrata trionfale nella “camera rossa” per un banalissimo accoppiamento con Ana ammanettata e la classica mascherina copri occhi.
E se si eccettua qualche ordine che lui le dà (“non venire”, mentre fanno l’amore e chissà se lei lo rispetta), il rapporto sadomaso, presentato paradossalmente con un certo brio nello script del primo film diretto da Sam Taylor-Johnson, qui con Foley finisce in quell’aura patinata da erotismo d’antan che non esiste più, come target di mercato, dai tempi di Bo Derek. Se nelle sfumature di grigio l’aver messo in discussione le certezze dei desideri sessuali di Anastasia pareva non tanto la carta vincente, quanto almeno una possibile novità tematica; qua lo svuotamento delle perversioni di Grey affloscia il personaggio e la relazione dei due in una romanticheria strappalacrime che non ha nemmeno la maturità di una dinamica da coppia adulta. Al tutto vanno aggiunti due assoluti master della dominazione: il product placement lussuoso e devastante di Apple, Fazioli e Armani da cui non ci si riesce a liberare facilmente, come del pallido accompagnamento musicale di Danny Elfmann davvero da viale del tramonto che si insinua inutilmente in ogni sequenza di pathos.
Davide Turrini, FQ Magazine