Sta per arrivare la quinta stagione “BoJack Horseman”, ecco le novità

Sta per arrivare la quinta stagione “BoJack Horseman”, ecco le novità

Protagonista un cavallo attore che vive a Hollywood e ha problemi di depressione e alcolismo. La serie si potrà vedere dal 14 settembre su Netflix

BoJack Horseman” è tutto quello che una serie tv dovrebbe essere. Il fatto che sia animata – e l’animazione è un modo, un mezzo, non una discriminante – le permette di passare da un genere all’altro, di prendersi tutte le libertà che vuole; di raccontare qualunque cosa da qualunque punto di vista e, più in generale, le permette di esagerare.Ci sono degli episodi, nella quinta stagione (disponibile dal 14 settembre su Netflix), che mettono in pausa la trama orizzontale e che si concentrano unicamente su quella verticale. Si ricomincia con BoJack, ex-star del piccolo schermo, che ha finalmente trovato un nuovo lavoro, con Diane e Mr. Peanutbutter che hanno divorziato; con Todd che si è trasferito a casa di Princess Carolyn, e con Princess Carolyn che ha deciso di adottare un figlio. Si inizia parodiando lo show business e si continua con monologhi fittissimi, con temi attuali, come la parità di genere e la violenza contro le donne, le responsabilità di chi è famoso e può sfruttare la propria posizione (“non vediamo l’ora di perdonare chi ha sbagliato”); con l’ansia di riprendersi il proprio posto nel mondo, di farcela da soli e di ricominciare. “BoJack Horseman” ha sempre raccontato questo, dopotutto. La voglia del suo protagonista, un uomo-cavallo, di rimettersi in piedi. Di essere diverso. Di riuscire a dimenticare l’infanzia difficile e i suoi terribili genitori. In mezzo ci sono i problemi di ogni giorno, c’è l’alcol e la droga; c’è una figlioccia e c’è l’ansia – la paura – di non riuscire e di fallire. BoJack, il protagonista, è il centro della storia e, contemporaneamente, il suo contorno. Perché non c’è solo lui. In alcune puntate, come la seconda, seguiamo Diane che cerca di affrontare il divorzio, che parte per il Vietnam e che tiene una lista dei “buoni motivi per andarci” (c’è anche una ferocissima parodia dei “nuovi media”, come Buzzfeed); nella quinta, invece, Princess Carolyn si mette in viaggio per conoscere la madre del figlio che, forse, adotterà. E ci sono flashback e ricordi. C’è lei giovanissima che, poco più che maggiorenne, rimane incinta e si trova davanti a un bivio. Essere quello che gli altri vogliono che lei sia, o riprendere il controllo della sua vita (e qui si apre un altro capitolo, piuttosto breve ma intenso, sull’aborto, sull’importanza di ridare alle donne la consapevolezza del proprio corpo e delle proprie scelte). Alla sesta puntata, di colpo, tutto cambia. Un’altra volta. Scompare il set della serie che BoJack sta girando – “Philbert”, una parodia di “True Detective” e dell’anti-eroe televisivo, oscuro, infame e pieno di misteri – e ci ritroviamo in una cappella per un funerale. Improvvisamente sembra di guardare “Patrick Melrose”, con BoJack al posto di Benedict Cumberbatch. E per venti, venticinque minuti, veniamo colpiti da parole su parole, da un lunghissimo discorso di un figlio che ricorda i propri genitori, di un uomo cresciuto nel dubbio e nella mancanza di affetto; di un flusso di coscienza infinito, estenuante, che è la quintessenza della nuova televisione – buona scrittura, avanti e indietro la quarta parete; ironia cinica. In “BoJack Horseman” ogni cosa finisce per diventare un pretesto, un modo – proprio come l’animazione – per raccontare una storia particolare. Raphael Bob-Waksberg, il creatore, non sceglie mai la strada più facile, non si abbandona – come pure potrebbe fare, giunto alla quinta stagione di una delle serie più apprezzate di Netflix – alle soluzioni più facili. Prova sempre ad andare oltre. I disegni, che portano la firma di Lisa Hanawalt, non sono mai troppo sofisticati o eccessivamente realistici (nemmeno in piccola parte, in realtà): sono quello che serve. E poi ci sono le voci. Altro capitolo fondamentale. “BoJack Horseman” andrebbe visto in inglese, in lingua originale quindi, per apprezzare il lavoro fenomenale che fa Will Arnett, doppiatore di BoJack, di Aaron Paul che doppia Todd, Amy Sedaris che doppia Princess Carolyn (e che in questa stagione si diverte a cambiare più volte accento) e Alison Brie, già protagonista di “Glow”, che doppia Diane. Guest di questa stagione: Rami Malek, l’attore di “Mr. Robot” e prossimamente al cinema con il biopic sui Queen in cui interpreta Freddie Mercury, che presta la sua voce a Flip, il geniale e controverso showrunner della serie tv in cui recita BoJack. Non c’è un solo modo di vedere, o di leggere, “BoJack Horseman”. Non c’è un manuale delle istruzioni. Non c’è una linearità né nella trama, né nelle scelte registiche. Soprattutto non c’è nella scrittura. Perché questa è una serie che si trasforma, che cresce, che aggiunge sempre qualcosa di nuovo stagione dopo stagione, puntata dopo puntata. Non è il viaggio dell’eroe (o dell’anti-eroe, o di qualcuno da cui prendere esempio); è il viaggio dell’uomo medio, piatto, forse senza talento, triste e intristito; è il viaggio di chi non sa chi è, di chi non lo ha mai capito, e che nella sua sofferenza rischia di annullarsi. Chi gli sta attorno cerca di aiutarlo o, all’estremo, affonda insieme a lui. E si ride, certo. In questo viaggio c’è anche spazio per le risate. Ma “BoJack Horseman” non è mai stato solo quello, battute e ironia; è sempre stato altro. E questa stagione, questo “altro”, lo scolpisce nella pietra. Si parla di redenzione. Si parla di verità. Forse è arrivato il momento di smetterla di fare distinzioni, e di prendere seriamente in considerazione questa serie anche per altre categorie agli Emmy Awards: miglior drama, per esempio, o miglior attore (o attrice) protagonista. Perché qui c’è tutto quello che, e lo dicevamo all’inizio, una serie tv – un’ottima, anzi, serie tv – dovrebbe avere. È un racconto di quasi cinque ore fatto di colori, immagini e di parole, dove non importa il genere e non importa la destinazione, dove si vuole arrivare; è un’esperienza visiva, è la quintessenza – lo ripetiamo – del racconto televisivo. È bello ed è, contemporaneamente, terribile. E proprio per questo, ora, diventa necessario.

Gianmaria Tammaro, lastampa.it

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