Forse è emblematico dei nostri tempi che l’immagine che sintetizza di più le mie impressioni di questa esperienza cinese sia un selfie. Mi sono ritratto sotto l’insegna di Starbucks, forse l’esempio migliore di penetrazione globale dei brand americani, mentre sto per acquistare un cappuccino pagandolo con una banconota con l’immagine di Mao Tse-tung.
Chissà cosa penserebbe il ‘Grande Timoniere’ di questa Cina in cui il profitto individuale sembra essere il valore assoluto?
In realtà se sono in Cina è proprio perché, come nell’Italia della fine del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, tra i giovani comincia a crescere il bisogno di qualcosa di più profondo, che sappia esprimere le inquietudini e i bisogni, come ha saputo fare la canzone d’autore per generazioni di italiani.
Sono stato invitato a condividere il suo palco a Shanghai e Hefei da Zhang Chu uno dei pionieri del rock cinese negli anni Novanta e forse l’artista cinese che più si avvicina alla nostra idea di cantautore. Nel 1992 la sua canzone Sorella toccò il cuore di molti narrando una storia di abusi familiari e di repressione in cui molti hanno letto anche un riferimento allo Stato, padre e padrone. Chu continua a scrivere e a dare concerti ma non pubblica un nuovo disco dal 1998, il che forse aiuta ancor di più ad alimentare la sua leggenda. Ci ha fatti incontrare Zhang Changxiao, che si fa chiamare Sean (Molti cinesi si scelgono un nome comprensibile e pronunciabile da noi occidentali), un ragazzo di 29 anni venuto a Milano per studiare al Politecnico. Un giorno, a Lecco, è rimasto folgorato dalla voce di Fabrizio De André, ha comprato tutti i suoi dischi per poi estendere il suo interesse agli altri cantautori. Si è così appassionato alla canzone d’autore italiana, tanto da scrivere un libro che ha raccolto un buon successo tra i suoi connazionali. Il passo successivo è venuto naturale: portare artisti italiani in Cina e viceversa. Sean è figlio di un imprenditore ed è un ottimo esempio di quel misto di passione, volontà e incrollabile determinazione che ha portato la Cina a diventare una grande potenza economica.
Siamo atterrati a Shanghai alle 5 di mattina del primo giugno, dopo undici ore e mezza di volo. Il jet-lag è peggiore quando si viaggia verso oriente ma, dopo aver dormito fino all’una del pomeriggio, la fame ci spinge ad avventurarci nel quartiere di ristorantini e centri massaggi nei pressi dell’hotel, dove Sean sceglie di farci assaggiare l’hot pot, la ‘pentola calda’. In mezzo al tavolo c’è una piastra termica sulla quale viene posta una pentola di brodo bollente nel quale ognuno può cuocere vari tipi di carne e verdure che poi vanno intinte in una vasta scelta di salse, quasi tutte esotiche e piccanti. È ottima e divertente. Stringiamo il patto di mangiare solo cibo regionale cinese per tutto il soggiorno.
Dopo pranzo insisto perché si prenda il metrò fino al centro: sono convinto che per conoscere un popolo devi prendere i mezzi pubblici che, tra l’altro, qui sono efficientissimi e Summer, il nostro assistente a Shanghai, ci guida sapientemente. Sul treno sono tutti immersi nei loro smartphone. Scendiamo nel centro di Pudong, la parte nuova della città, e sembra di essere atterrati dentro a Futurama: si cammina sopra il traffico sotto grattacieli altissimi e la torre simbolo della città che buca le nuvole basse (il tempo è stato relativamente clemente, ma è stagione di monsoni e Hong Kong e Taipei sono allagate).
Tutti camminano col naso in aria, ne deduco che sono quasi tutti turisti delle regioni interne e l’intuizione è confermata dalla quantità di persone che chiedono di farsi una foto con noi! Il più gettonato è Lamagna, il nostro bassista con i dread, che attira i ragazzotti. Io invece faccio furore con le signore anziane, sigh…
La sera del 2 giugno sono invitato dal gentile Console Generale d’Italia ai festeggiamenti per la Festa della Repubblica che si tengono alla Peace Hall dell’Hotel Fairmont, storica sala da ballo anni Trenta nel Bund, l’antico quartiere europeo dall’altra parte dell’enorme fiume che taglia la città. Scopro che lo skyline di Shanghai va visto di sera.
I grattacieli di Pudong sono tutti fantasiosamente illuminati di led multicolori che si riflettono nell’acqua, creando una vista persino più spettacolare di quella di New York. Sul lungofiume migliaia di persone si godono lo spettacolo. Qualcuno si ferma per farsi fotografare sotto la statua di Mao che osserva severo la scena ma sono molto più fotografate le coppie di sposi (con la sposa rigorosamente in rosso) che posano per il tradizionale servizio fotografico. C’è eccitazione nell’aria, quella pulsante vibrazione di Futuro che sentivo a New York da bambino, l’ebbrezza elettrica della sensazione che il domani sarà comunque migliore del presente. Era tanto che non la sentivo e mi fra un po’ girare la testa. Tornando in hotel in taxi, di colpo vengo avvolto dall’odore e dal fumo di carne alla brace. Stiamo passando per una viuzza stretta dove sembra di essere tornati indietro di cent’anni: ovunque bracieri improvvisati dove rosolano maiali interi, carretti di ambulanti che vendono zuppa e noodles, gente che mangia camminando. Sembra una scena di Blade Runner. Non faccio in tempo a scattare una foto che siamo già tornati sotto altissimi grattacieli colorati che si perdono nelle nuvole basse.
Il giorno dopo andiamo alla ricerca di questi quartieri tradizionali. Scendiamo alla fermata di People Square, Piazza del Popolo, e subito ci infiliamo in un dedalo di viuzze. Casette a schiera di mattoni, a due piani, sembrano tenute insieme da grovigli inestricabili di fili elettrici, cavi coassiali, telefonici, ethernet spesso adornati da bucato messo a stendere. Sembra una favela ma in realtà è pulitissimo e molte casette sono in ristrutturazione, avvolte da impalcature di bambù dall’aria precaria ma che invece risultano solidissime. L’unico pericolo sono moltitudini di scooter elettrici stracarichi, copiati dalla Vespa, che ti arrivano alle spalle silenziosissimi per poi farti sussultare con violente strombazzate di clacson. Giriamo l’angolo e veniamo sommersi dal frinire di centinaia di grilli nelle loro gabbiette a forma di palla. Siamo nella strada dei negozi di animali da compagnia. Cani, gatti, pappagalli, conigli, pesci rossi. Sospettosi chiediamo se sono da mangiare: “Ma no!”, esclamano inorriditi, “only in…”. Il nome della provincia mi sfugge, ma la loro reazione sdegnata mi rassicura anche se la vista di quei cucciolotti in gabbia mi commuove.
Alle cinque c’è il sound check, la prova dei suoni, e saliamo con la band di Zhang Chu sul piccolo autobus che ci porterà fino all’Oriental Arts Center, una splendida architettura a forma di quadrifoglio con quattro sale di diverse misure dove si terrà il concerto. Ricorda un po’ l’Auditorium di Roma ma, ovviamente, in grande. La sala è bellissima, con le poltrone che circondano il palco, ma i camerini sono spartani; un labirinto sotterraneo con grandi sale trucco e un locale mensa dove due burbere donnine di mezza età in uniforme grigia ci rifilano una vaschetta di riso e carne dura come il cuoio ma piccantissima.
Ho tradotto in italiano e arrangiato con la mia band un nuovo pezzo di Chu. Io canto una strofa in italiano, lui la stessa in cinese: l’effetto è interessante e la musica si è insinuata senza sforzo nelle nostre orecchie, dove rimane ancora, intrigante come il testo di cui intuisco la possibile doppia interpretazione, privata e, sottotraccia, sociale. Generosissimo, a metà del suo spettacolo, dopo una breve introduzione ci lascia il palco per quattro canzoni. Ho scelto Le ragazze di Osaka, Un uomo, Extraterrestre e Amore diverso. Vengono accolte con vero e sincero entusiasmo anche perché io e la band diamo il massimo: Extraterrestre sembra quella più gradita, forse anche perché l’ho raccontata parlando in inglese ma mimandola in napoletano. Poi chiamo sul palco Chu e cantiamo il suo brano. Successone!
All’uscita una cinquantina di ragazzi entusiasti ci aspetta sotto la pioggia: autografi, selfie, quattro chiacchere e poi via verso un ristorante per un altro hot pot, ma di una regione diversa, molto più ricco e piccante; e birra, tanta birra…
Andare a letto alle quattro è stato un errore. Me ne accorgo il giorno seguente quando lasciamo a malincuore Shanghai per percorrere i 450 km che ci separano dal prossimo concerto, quella stessa sera a Hefei, nella regione di Anhui. Shanghai è la città più popolosa del mondo e la sua stazione è immensa ma razionale, tutto è computerizzato e i passeggeri di ogni treno vengono raccolti in sale d’aspetto, ognuna estesa come mezza stazione Termini. Nell’attesa Zhang Chu mi regala uno spassosissimo mini drone a forma di Minion capace di sentire la vicinanza del suolo e risalire in aria, sempre più in alto. Li vende per 3 euro e 50 una vecchia che sembra anche l’unica capace di catturarlo al volo quando fluttua sopra le teste degli ignari viaggiatori.
Video
Il cantante ci racconta in esclusiva, con parole, immagini e video, il suo primo viaggio musicale nel paese del “Grande Timoniere”. Tre date, Shanghai (3 giugno), Hefei (4 giugno) e Pechino (5 giugno) ospite del celebre cantautore cinese Zhang Chu in un tour organizzato dallo studioso di interscambio culturale italo-cinese Zhang Changxiao per Italia & Cina Associazione Artistica Mandorla. Tutto è meraviglia: incluso il drone (a forma di Minion) che vola nella gigantesca stazione ferroviaria di Shanghai.
Il treno sembra un missile all’esterno e su questa linea tiene una media di 200 km l’ora, ma è a misura di cinese: cinque sedili per fila tutti rivolti in avanti come in aereo e, come in aereo, lo spazio non è generoso per un corpulento europeo. Sembra anche che il concetto di supporto lombare sia sconosciuto a designer di sedili ferroviari per cui arrivo a Hefei con la schiena a pezzi. Forse è anche perché sono stato ore girato a guardare dal finestrino.
Il viaggio ci porta a ovest, verso l’interno, attraversando il cuore industriale e manifatturiero del Paese, seguendo per un bel pezzo il fiume Yangtze (credo) e dove c’è acqua ci sono centrali nucleari e a carbone per produrre l’energia necessaria ad alimentare un continente di fabbriche, capannoni, industrie a perdita d’occhio. A volte si vede una pagoda in lontananza e, sorprendentemente, quasi altrettante chiese, edifici semplici ma con le croci ben in vista sul tetto. Attraversiamo città immense con interi quartieri in costruzione che potranno ospitare migliaia di persone.
Mi domando come sia la vita in questi palazzoni immensi. Cosa sognano, cosa temono, cosa si aspettano dal futuro. Penso a Pasolini che osservava le periferie di Roma. Ai mille progetti futuristici di città verticali pensati da grandissimi architetti e tutti miseramente falliti. Ma forse qui è diverso; non so quanto ci sia di comunismo, se rimane qualche traccia di quell’utopia, forse no ma di sicuro c’è la ben più antica filosofia confuciana che antepone il bene comune e l’armonia all’individualismo egoista.
La band saggiamente dorme, riposandosi come i soldati in trincea prima del prossimo concerto. Io non ci riesco, sono troppo curioso.
Poi di colpo cambia il paesaggio. Una collina, una galleria, finalmente un bosco dopo tanto cemento. Ma presto ricomincia la pianura industriale. L’altoparlante annuncia l’arrivo a Hefei.
Hefei è una città nuova, fa la stessa impressione di un appartamento parzialmente arredato in una palazzina appena terminata. È tutto nuovo ma non vissuto. La stazione è enorme e lucida, le strade ampie e perfettamente pavimentate, ovunque sono in costruzione quei quartieri di palazzoni gialli e altissimi che sembrano essere l’archetipo architettonico della nuova Cina. L’albergo occupa due torri alte 42 piani, uniti da una hall sfavillante di marmi e enormi lampadari di cristallo che illuminano una reception presidiata da giovani ragazze gentili e molto carine, eleganti nelle loro giacchette attillate ma sobrie. Le nostre camere sono al 26° piano: pratiche, funzionali ma asettiche. La televisione trasmette solo programmi cinesi. La finestra guarda proprio su un quartiere residenziale; cerco di spiare in qualche appartamento ma non si distingue niente.
Hefei è una città di 4,5 milioni di persone destinata a diventare un polo tecnologico e produttivo per l’industria high tech e militare. Zhang Chu, più poeticamente, sembra citare Gaber o Luigi Tenco: “Nessuno vuol più vivere nei villaggi, è un mondo che si sta perdendo. Oggi tutti vogliono vivere in città e il governo le costruisce”.
A Shanghai mi ero un po’ meravigliato dell’apparente assenza di manifestazioni ideologiche, a parte qualche striscione su alcuni dei ponti pedonali che attraversano le strade a dieci corsie, come della scarsa presenza visibile di forze dell’ordine, se non qualche furgone nei luoghi più affollati del centro. Anche le bandiere rosse della Repubblica Popolare si trovano solo dove ci si aspetterebbe di trovare in Italia il tricolore: palazzi pubblici, alberghi. Niente in confronto all’ossessiva, quasi aggressiva esposizione di bandiere a stelle e strisce di qualunque centro urbano degli Stati Uniti. Ma a Hefei sento di più la presenza, paternalista e predicatoria, del Partito. Già alla stazione avevo notato un cartellone luminoso, identico a quelli pubblicitari, che esortava ai valori socialisti: Prosperità, Democrazia, Senso civico, Armonia, Libertà, Eguaglianza, Giustizia, Legalità, Patriottismo, Dedizione, Integrità, Amicizia.
Guardando meglio però mi sembrano più i tradizionali e antichi valori confuciani e anche la grafica, con l’antica colonna che fronteggia la Porta della pace celeste in piazza Tienanmen, richiama più la gloria imperiale che la Grande rivoluzione culturale proletaria. Quando mostro la foto all’autista mi guarda ironico e poi, indicando gli ideogrammi fa cenni eloquenti, questo sì, questi no, questo forse poi ridacchia.
Il Grande Teatro di Anhui è un vero e proprio teatro lirico, con un palcoscenico largo e profondo, più grande della stessa sala, dove si potrebbe tranquillamente mettere in scena una produzione de La Scala di Milano. Mi domando che tipo di spettacoli ospiti di solito questa ribalta e vado a spiare i manifesti degli spettacoli in prevendita al botteghino. Tra le locandine di prosa, balletto, musica classica me ne colpisce uno che sembra uscito dagli anni Sessanta.
Chissà cos’è? Ma non c’è nessuno a cui chiederlo…Quella sera il concerto va benissimo: anche qui ci accolgono con calore e affetto, anche qui Extraterrestre raccoglie più consensi. Sono esausto e decido di tornare in hotel da solo, in taxi. La notte gli edifici più alti si colorano e le strade si animano; salgo nella sala panoramica all’ultimo piano per scattare qualche foto. Mi addormento senza tirare le tende per guardare la vita nelle case di fronte.
Levataccia alle 6 per prendere l’ultimo treno per Pechino. In hotel non servono ancora la colazione ma arriviamo in stazione in anticipo e, proprio in corrispondenza col nostro binario, notiamo un Burger King! Da quando abbiamo lasciato l’Italia abbiamo mangiato solo varie cucine tipiche cinesi e quella familiare insegna sembra ipnotizzarci. Improvviso un blues: “Gimmie a Whopper in the morning, that’s just what I need…”. Quando ce vò, ce vò!
Esternamente questo treno sembra uguale all’altro ma dentro è più curato. C’è la prima classe e il mio posto è comodissimo. Partiamo puntuali, il paesaggio è monotono, padano, pioppeti e risaie, pioppeti e frumento, quelle che sembrano comuni agricole di mattoni rossi; 1000 km, solo quattro fermate, 4 ore e 20 volando a più di 300 km orari di media e siamo nella capitale dell’impero, Beijing. Ci avevano avvertito che l’aria sarebbe stata pessima, ma non mi aspettavo che mi prendesse così subito alla gola: dopotutto Milano non scherza. Ma lì l’inquinamento si può quasi toccare, una nebbiolina grigia che avvolge ogni cosa. E poi gente, gente ovunque, a piedi, in motorino, ma soprattutto in macchina. Il traffico è spaventoso, un ingorgo unico che si muove a sussulti perché appena c’è il minimo spazio tra due auto qualcuno cambia corsia e ci si infila strombazzando. Un inferno.
A Pechino Sean ha organizzato un vero e proprio concerto al Yu Gong Yi Shan Livehouse, un club storico dove hanno suonato nomi prestigiosi della scena rock internazionale. L’entrata sembra quella di un antico palazzo e, in effetti, il locale è in una specie di villaggio antico con casette basse col tetto in piastrelle di ceramica.
FotoEugenio Finardi, quarant’anni di musica ribelle: il tour sbarca in Cina. Il suo diario
Ci accoglie il proprietario, il chitarrista di uno dei primi gruppi metal cinesi, capelli lunghissimi, che ci offre una birra nel suo giardino di bambù. Dentro l’atmosfera è perfetta così come l’acustica del palco, non grandissimo ma ottimamente insonorizzato. Ho la batteria alle mie spalle ma non mi assorda per niente, i tecnici audio e luci sanno il fatto loro, parlano un buon inglese e lavorano con strumenti di ultima generazione, così al sound check picchiamo giù due bei rock-blues, tanto per mettere i puntini sulle i. Rispetto e cortesia da entrambe le parti. Mentre comincia a entrare il pubblico ci spostiamo al piano di sopra, in un salone con caminetto in marmo che mi conferma l’epoca prerivoluzionaria degli ambienti. Alle pareti stampe manga erotico psichedeliche con aperte citazioni di Hokusai. Nell’attesa vengono a trovarci vari musicisti e star della scena rock cinese. Intanto la sala si è riempita a metà di ragazzi cinesi e di una mezza dozzina di italiani che scopro poi essere dell’ambasciata. Mi avevano suggerito di suonare i brani più melodici ma mi rendo presto conto che il pubblico ha voglia di rockeggiare e cambio scaletta. Il pubblico risponde con entusiasmo e ci spinge a dare il massimo. È un vero successo, non me lo aspettavo.
Dopo il concerto andiamo in un famoso jazz club dalle parti del Palazzo d’Estate, dove ci hanno riservato una terrazza sul tetto che si affaccia su un lago circondato da locali della movida pechinese. È una notte tiepida e dolce e ci rilassiamo dopo tre giorni sfiancanti.
Il giorno dopo decidiamo di visitare piazza Tienanmen e le viuzze commerciali della Vecchia Pechino. L’anziano tassista non sembra molto contento della corsa e arrivati alla piazza capisco perché. Il cuore della Cina è blindato, transennato, non ci si può fermare neanche un attimo pena multe salatissime e anche i pedoni devono passare rigidi controlli di sicurezza. Decine di poliziotti armati di estintori scrutano severi le centinaia di visitatori che si fanno fotografare davanti al gigantesco ritratto di Mao sulla Porta della Pace celeste, il monumento più famoso.
Mi spiegheranno poi che è per via dei tibetani e dei seguaci della setta buddista Falun Gong, che a decine si sono dati fuoco, e degli Uiguri islamici che si fanno saltare in aria in questo luogo simbolo della nazione. Mi accontento di fotografare dall’auto, anche perché sono scoraggiato dalle dimensioni esagerate della piazza, sinceramente poco attraenti, che sminuiscono ogni monumento. Mi spiego: San Pietro è imponente perché la piazza è proporzionata; se fosse grande 10 km quadrati la cattedrale sembrerebbe una cappelletta di campagna. Ripieghiamo sull’antico quartiere diventato il cuore turistico e commerciale della capitale dove i negozietti vendono di tutto, dai souvenir ultra kitsch ai vestiti sportivi. Finalmente riesco a trovarne uno che fa i tradizionali timbri in pietra e me ne faccio intagliare uno con scritto ‘Finardi’ in cinese.
Ma la parte del leone la fanno i negozi di cibo di strada. Mangiano tutti e di tutto. Mi colpiscono in particolare gli spiedini di calamaro che mandano un profumo invitante!
FotoEugenio Finardi, quarant’anni di musica ribelle: il tour sbarca in Cina. Il suo diario
Fa caldissimo, sono esausto da giorni di viaggi e concerti e un improvviso acquazzone fa calare la temperatura da 32 a 18 gradi. Sento che mi sto ammalando.
Il giorno seguente però ho un ultimo impegno, un incontro alla facoltà di Musica e Scienze della Comunicazione dell’Università di Pechino. Il campus è grande, arioso, con ragazzi che studiano nei giardini in stile orientale, con i classici salici sull’orlo di laghetti artificiali con i tipici ponti arcuati. L’organizzazione è impeccabile: all’entrata dell’aula ci sono due colonnine, una con la mia foto, l’altra con quella di Zhang Chu, e la parete dietro il palchetto è un enorme fondale con le stesse foto e il titolo del convegno, un confronto sulla condizione musicale nei nostri Paesi.
Il tutto sponsorizzato da aziende di alta tecnologia e di comunicazione. Gli studenti sono attenti e preparati e dopo un’ora circa di dibattito sul diritto d’autore, la libertà d’espressione, il ruolo della musica d’autore, ci fanno domande precise e pertinenti. Alla fine si esibisce un gruppo di thrash metal, bravi ma identici ai loro modelli americani. Mi spiegano dei ragazzi che il rock pesante è ancora considerato trasgressivo e malvisto dalle autorità e perciò molto amato dai ragazzi. Il preside di facoltà mi chiede un parere e consiglio loro di partire da quella matrice ma di cercare di sviluppare un’interpretazione più personale e cinese. Tutto l’evento è stato ripreso con grande professionalità dalla televisione dell’Università in alta definizione a 4K. Ho la sensazione che non si risparmi sulla formazione e la tecnologia. Il campus mi ricorda le università americane e mentalmente faccio un paragone con la condizione degli studi superiori nel nostro Paese.
Ho la sensazione che l’asse della modernità sia ormai sull’Oceano Pacifico e che essa oggi fluisca dall’America all’Oriente, marginalizzando l’Europa. Eppure la cultura di riferimento è pur sempre la nostra e come l’ellenismo nell’antica Roma dovremmo cercare di approfittarne di più.
Lasciata l’università ci diamo appuntamento all’ennesimo ristorante all’aperto. In alcuni quartieri sembra sia un’amata tradizione mangiare in strada, su grandi tavolate, sfiorati dal traffico caotico. Appena ci sediamo ci portano l’acqua come negli USA, solo che qui non è gelata ma calda, con fette di limone. La prima volta si rimane di stucco anche perché il clima è caldo e umido. Appena ne bevo un sorso mi rendo conto di avere la febbre alta, mi scuso con tutti e cerco un taxi per tornare in hotel. Il giorno dopo sono rovente: 39,5°, ho improvvisamente freddo e tremo incontrollabilmente battendo i denti. Non riesco nemmeno a farmi una tazza di tè col bollitore che ho in camera e decido di chiamare Andrea, il mio collaboratore, che è andato a esplorare i quartieri popolari non lontani dai grattacieli del centro, quasi delle favelas con le strade sterrate dove vecchi giocatori di mahjong si riuniscono in cerchio e gli stranieri vengono guardati con ironia e curiosità. È prudente ma non preoccupato perché da quando siamo in Cina coi sentiamo al sicuro: la punizione per crimini anche minori è talmente alta e certa che sembra scoraggiare qualunque tentazione.
Dalla mia camera non posso che guardare alla CNN i deliri della campagna elettorale americana e quella per la Brexit, dove alimentare la paura e la xenofobia diventano armi di propaganda, mentre l’incessante fiume di traffico scorre sotto la mia vetrata. Rifletto su quest’esperienza che mi ha dato un breve assaggio di questo immenso Paese il cui stesso nome Zhongguo, ‘la nazione centrale’, descrive perfettamente il ruolo a cui aspira e che sicuramente avrà nel mondo sempre più interconnesso che ci attende. Uno stato paternalisticamente totalitario, ormai privo di qualunque riferimento ideologico, che in cambio della mancanza di libertà politica offre stabilità e sicurezza e liberismo assoluto in campo economico, ambiente ideale per le grandi multinazionali che qui investono senza essere frenate dai fastidiosi vincoli della democrazia che infatti indeboliscono con le loro potenti lobby, scatenando reazioni estremiste e populiste.
Torno a casa in una Milano fibrillante per il ballottaggio tra due candidati sostanzialmente identici e ripenso a Mao. Forse mai come oggi ci vorrebbe una Rivoluzione culturale planetaria per riprenderci il Futuro!
Repubblica