Mentre esce il suo ultimo film il divo inglese spiega cosa significa per lui recitare. E perché nel suo castello irlandese ha trovato la dimensione autentica della vita
“Fare l’attore è come giocare a tennis: ti alleni tutti i giorni, ti prepari a rispondere a qualsiasi colpo dell’avversario, poi si avvicina il momento del match e ti immagini quali saranno le difficoltà che dovrai affrontare. Ma poi quando sei sul campo a giocare, affronti solo un punto alla volta. E alla fine il pubblico che ha guardato lo spettacolo magari ti dice che hai giocato una partita memorabile: tu ci ripensi e ti ricordi che una battuta, una scena del film, è stata come un passante lungo linea straordinario”.
È in vena di metafore sportive Jeremy Irons, 67 anni, quando lo incontriamo al festival di Zurigo, dove è arrivato per presentare la sua ultima partita di una straordinaria lunga carriera, ricca di trofei, compresi un Oscar e due Golden Globe.
In L’uomo che vide l’infinito, in uscita il 9 giugno, interpreta il celebre matematico inglese del Trinity College di Cambridge Godfrey Harold Hardy, che nel 1913 ricevette una lettera dallo sconosciuto Srinivasa Ramanujan (l’attore Dev Patel). Il giovane autodidatta indiano, che si sarebbe rivelato uno dei geni della matematica del Novecento, desiderava condividere le proprie formule col professore, e Hardy, contrariamente a quanto pensavano alcuni suoi colleghi convinti che fosse un ciarlatano, intuì la genialità di Ramanujan e lo invitò in Inghilterra, cambiando per sempre la storia della matematica pura.
“Onestamente non ho mai avuto una grande passione per i numeri”, spiega Irons “né conoscevo la storia di Ramanujan. Ma poi ho letto il libro di Hardy Apologia di un matematico e mi ha colpito il modo in cui descriveva la sua materia, con il senso della scoperta, e non nel modo arido in cui l’ho studiata io. E ho capito che la matematica è un’arte, proprio come la recitazione”.
Il film però è anche la storia del rapporto tra due persone molto diverse capaci di formare un sodalizio scientifico attraverso la stessa lingua fatta di astruse formule: “È questo l’aspetto che mi ha permesso di avvicinarmi al personaggio di Hardy”, racconta ancora Irons “ovvero la sua incapacità di relazionarsi con le persone se non attraverso i numeri e questo forte legame con Ramanujan con cui riesce finalmente ad aprirsi ed esprimere le proprie emozioni”.
Come mai secondo lei ultimamente il cinema si è dedicato a diversi scienziati come Hawking, Turing e adesso Ramanujan?
Penso dipenda dal fatto che oggi siamo circondati dall’elettronica, utilizziamo Internet e i social network, senza però capirli veramente. E questi personaggi sono in qualche modo sempre più rilevanti nell’epoca in cui viviamo. I computer sono stati inventati con la promessa di farci lavorare meglio e darci più tempo libero, ma purtroppo è vero il contrario. Sarà perché sto invecchiando, ma la vita sta diventando troppo veloce e fondata su valori sbagliati.
Che intende dire?
Ci sono questi reality show dove alcune persone diventano celebri in due minuti e poi riempiono le pagine dei giornali. Quando li guardo sulla copertina dei magazine mi chiedo: chi sono? Come è possibile che si sia dato sfogo alla febbre di voler apparire? E che sta succedendo?
Si è dato una risposta?
Di solito io do la colpa al consumismo, a questo motore inarrestabile del capitalismo e dell’economia globale che ci vuole fare comprare nuove merci continuamente. Il denaro è diventato preminente, anche per misurare i rapporti umani, ma quello che importa nella vita è la comunità e la comunicazione con le persone. Sono molto preoccupato di quale sarà l’equilibrio che riuscirà a trovare l’umanità in questa rivoluzione, considerando anche come si sta depredando la natura senza curarsi delle conseguenze. Tutto è improntato allo sfruttamento. Guardi la moda ad esempio: oggi ci sono vestiti di qualità talmente infima che i produttori sperano li butteremo via nel giro di un anno. Io però io il mio abito preferito l’ho fatto fare a 25 anni, l’ho riparato più volte e lo indosso ancora.
Qual è il suo antidoto per sfuggire a questo caos?
Starmene nel mio castello dove sono veramente felice (il Kilcoe Castle, nella punta sudoccidentale dell’Irlanda, ndr.) e dedicarmi ai miei svaghi: uscire al largo con la mia barca, cavalcare il mio cavallo, lavorare in giardino, guidare la mia moto e portare a spasso il mio cane. Nel tempo libero mi piace leggere, saggi di filosofia e soprattutto biografie, per vedere quali scelte fanno le persone e capire dove le portano.
Lei ha capito quali sono stati i momenti decisivi della sua carriera?
Lo comprendo solo ora, guardandola retrospettivamente. La gente pensa sia stato l’Oscar (per Il mistero von Bulow, 1990, ndr), ma non è così, perché non ha cambiato la direzione che avevo già preso. Molto più importanti sono stati il musical Godspell del 1971, ispirato al vangelo di Matteo, poi dieci anni dopo la serie tv Brideshead Revisited, tratta da un romanzo di Evelyn Waugh, e infine nel 1988 il film di Cronenberg Inseparabili. E poi naturalmente sposarmi, avere dei figli e ritirarmi nel mio castello: credo questa sia la cosa migliore che abbia fatto in vita mia.
Quando è accaduto?
Avevo compiuto 50 anni e iniziava quel momento in cui invece di essere protagonista venivo scritturato per ruoli secondari. Mi sono fermato due anni e mi sono dedicato al restauro del castello. Quando sono tornato avevo perso il desiderio di primeggiare: con l’esperienza capisci che la fama non è importante, sai cosa conta davvero nella vita e qual è il reale valore di un film. E poi quando ti costruisci una buona reputazione, la gente vuole lavorare con te per il tuo passato, e così anche se vuoi metterti alla prova hai sempre una rete di protezione. E finisci per perdere molta della tua passione.
Si è annoiato di recitare?
No, ma guardo le cose in prospettiva. Da giovane mi offrivano un ruolo e provavo l’ansia di doverlo fare a tutti i costi, partivo da casa con un sorriso di contentezza, ma quel brivido è scomparso. Oggi mi diverto più di prima a lavorare, perché lo faccio solo se ne ho voglia, se il regista e il luogo dove si girerà mi piacciono, se non starò troppo lontano da casa, se so che con i miei colleghi mi divertirò.
Il suo collega Dev Patel ha detto che incontrarla lo ha messo in grande soggezione. Si ricorda di quando si è trovato al suo posto?
Certo, ho lavorato con John Gielgud e Laurence Olivier e me la facevo sotto. Ricordo che in una scena di Brideshead Revisited io avevo la maggior parte delle battute e mentre provavamo, Olivier mi osservava, studiando il modo in cui riuscire a fare una figura migliore di me. Ho pensato all’insicurezza di noi attori, che non scompare mai: siamo come bambini, abbiamo sempre il bisogno di trovare l’approvazione del pubblico.
Con tutta la sua esperienza vuol farmi credere che è insicuro?
Sono nervoso solo quando non mi sono preparato abbastanza. Spesso sogno che mi chiamino per rimpiazzare un attore che si è infortunato e mi diano una settimana di tempo per studiare la parte. Accetto e poi mi trovo alla prima teatrale senza ricordare non solo le battute, ma neanche il titolo dell’opera. Un vero incubo! Per superare il quale devo studiare, anche perché quando sei davvero pronto ti diverti di più a provare le scene con i tuoi colleghi. Non sono mai stato uno che si prepara più del necessario, ma ora inizio ad avere meno memoria, e devo impegnarmi di più.
Nel film Hardy svolge un ruolo quasi paterno con Ramanujan e lo aiuta per il meglio. Suo figlio Max fa l’attore, che insegnamenti gli dà?
Riesco a dargli pochi consigli perché il business è completamente cambiato rispetto a quando ero giovane io. Di solito gli dico di fare teatro perché è lì che si impara davvero, e di usare i film come la glassa sulla torta, perché la torta deve essere fatta di sperimentazione e rischi, difficili da ottenere nel cinema visto che i film ormai costano troppo. Ma una volta potevi costruirti tutta una carriera in teatro e oggi non è più così. Ascolta più i suggerimenti del suo agente che dei suoi genitori, e lo capisco perché non è facile riuscire a farsi notare con due genitori così ingombranti. Lo appoggio ma lo ritengo libero di fare le sue scelte. Perché non l’ho mai considerato mia proprietà.
L’Espresso