Il film di Mulan, uscito il 4 settembre in pay-per-stream sulla piattaforma Disney+, non sta riscontrando un’accoglienza benevola, a cominciare dalle polemiche per il prezzo troppo alto. Il film è stato attaccato per aver appoggiato le entità governative dello Xinjiang nei credits finali, una regione accusata per aver perpetrato violazioni dei diritti umani continue. Il film è stato accusato anche di «pinkwashing», ovvero di appoggiare le tematiche LGBT a fini commerciali.
Il film di Mulan, uscito il 4 settembre in pay-per-stream sulla piattaforma Disney+, non ha avuto una gestazione semplice in fase di produzione ma non si può dire nemmeno che abbia avuto una benevola accoglienza (a cominciare dalle stesse polemiche per il prezzo troppo alto per acquistare la visione del film). A quattro giorni dalla sua uscita sulla piattaforma, il film ad altissimo budget diretto da Niki Caro con l’attrice
statunitense Liu Yifei come protagonista, è stato attaccato per aver appoggiato le entità governative dello Xinjiang nei credits finali, una regione accusata per aver perpetrato violazioni dei diritti umani continue nei confronti degli uiguri, un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina.
Non solo la Disney ha girato il film nella regione, ma – stando a quanto riferisce Hollywood Reporter – lo studio ha offerto la sua gratitudine alle agenzie governative cinesi coinvolte negli anni in una serie di abusi ai danni di quella che è la maggioranza relativa della popolazione in quella regione.
Tra le varie accuse, anche quella di aver fatto «pinkwashing». Un termine coniato per descrivere le attività di marketing dei brand che, negli anni ’90, dichiaravano l’impegno nella lotta contro il cancro al seno solo per trarne interessi commerciali. Negli ultimi anni, questo termine serve anche a descrivere l’appoggio dichiarato dei brand – sempre a fini commerciali – alle cause del movimento LGBT e l’impegno a riconoscere diritti civili contro la discriminazione di persone omosessuali, bisessuali e transessuali.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, l’attrice protagonista Liu Yifei ha dichiarato – mentre si era nel pieno delle proteste pro-democrazia del 2019 contro la legge sull’estradizione nella terraferma cinese di persone arrestate a Hong Kong – di appoggiare pienamente la polizia di Hong Kong intenta a reprimere con la violenza le opposizioni. In un tweet dichiarò: «Supporto la polizia di Hong Kong, adesso potete pure attaccarmi». La vera Mulan guiderebbe le proteste a favore della democrazia e non appoggerebbe la polizia del regime. Queste le accuse principali che vengono mosse all’attrice naturalizzata statunitense.
In molti criticano anche le differenze evidenti sul piano narrativo, emozionale e metaforico, tra il cartone animato e il film. Grandi assenti nel film sono il personaggio di Mushu, il draghetto che protegge la guerriera, e il generale Li Sheng, il comandante di Mulan con cui nel finale sembra nascere una storia d’amore. L’eroe è stato scisso in due nuovi personaggi: il Comandante Tung (Donnie Yen), che diventa mentore di Mulan, e Honghui (Yoson An), soldato semplice e interessa amoroso della protagonista. Ad attaccare la Cina non sono gli Unni, come nel cartoon, ma la tribù dei Rouran. Al fianco del cattivo Böri Khan interpretato da Jason Scott Lee, è stato introdotto il personaggio della strega Xianniang, interpretata da Gong Li.
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