Tra le pietre assolate del Teatro Greco di Siracusa rinasce lo spettacolo dal vivo. La stagione programmata dal sovrintendente Antonio Calbi è spostata al 2021. Ma il 10 luglio si apre con un grande evento del Premio Oscar Nicola Piovani: «L’isola della luce», dramma musicale dedicato ad Apollo, su libretto di Vincenzo Cerami, per le voci recitanti di Massimo Popolizio e Tosca. Saranno ammessi solo 480 spettatori, sistemati sul palco. Sulle gradinate va in scena lo spettacolo.
«L’isola della luce nasce», qualche anno fa, tra le rovine dell’isola di Delos. Ora rinasce tra le «rovine» del coronavirus? «Andrà in scena in un immenso Teatro semivuoto, a causa dell’epidemia – risponde Piovani – Farlo risuonare di musica e parole è un gesto simbolico, propiziatorio. La storia che raccontiamo è piena di contemporaneità. Latona partorisce Apollo contro il volere degli Dei perché Apollo, dio della luce, porterà la luce agli uomini che devono vivere al buio. Delos, l’isola che permise a Latona di dare alla luce Apollo, è il sito dove presentai la prima versione di quest’opera. Ora a Siracusa presento la nuova versione». La luce è il contrario del buio. Lei, Maestro, ha temuto che non ci saremmo liberati dal buio del virus invisibile? «L’ho temuto. Abbiamo avuto una media quotidiana di morti più alta dell’ultima guerra mondiale. Mi venivano i brividi quando sentivo dire “ieri abbiamo avuto soltanto 120 decessi”. Quel “soltanto” mi faceva temere che ci stessimo abituando alla tragedia quotidiana e ci concentrassimo sul “diritto all’happy hour”. Il buio che mi fa paura è farsi dettare legge dalle divinità consumistiche. L’epidemia è alle spalle, dicono, ma i teatri sono ancora amputati di un elemento vitale: l’assembramento del pubblico». Apollo porta luce ai mortali. Il teatro porta luce alle persone? «Soprattutto le persone portano luce al teatro che, senza una platea gremita, somiglia a un fiume senz’acqua».
Il 17 luglio saranno 7 anni dalla scomparsa di Cerami. La morte è il buio o è un altro tipo di luce per chi ha fede? «Né Cerami né io siamo stati credenti praticanti. Ma ricordo alcuni pensieri, lontani da una visione atea, che ci scambiammo nel semibuio dietro le quinte. Io sono affascinato dalle religioni, dalla ritualità delle folle che si radunano per guardare all’Altro e all’Oltre. Credo che Vincenzo leggerà questa intervista, in un luogo, un tempo, uno spazio inimmaginabile, ma la leggerà». Lei ha iniziato da ragazzino con un insegnante di fisarmonica e suo padre Alberico suonava nella banda del paese. «Mio padre era appassionato dilettante di musica. Non eravamo ricchi, ma mi trovò un insegnante di fisarmonica, che pagavamo in natura, con frutta e verdura della nostra campagna. La musica mi è entrata nel sangue a 5 anni, assistendo a uno spettacolo di varietà, seduto in una sgangherata buca d’orchestra. Poi ho scoperto il cinema con il “Settimo sigillo” di Bergmann: un terremoto passionale. Sognai di fare cinema da musicista, e a volte i sogni si avverano. Però mi sento più a mio agio in teatro. Il rapporto carnale dello spettacolo dal vivo non ha confronto con surrogati tecnologici. Il teatro è il linguaggio del futuro, un rito che ha millenni alle spalle e un lungo futuro». I teatranti sono i più colpiti dalla pandemia. «Teniamo accesa la fiammella, in attesa che si possa tornare ad assembrarci, a tossire in platea, a sentire un coro che canta sputazzando droplet in aria. In attesa di poterci riabbracciare in mondo meno virtuale e più “vizioso”».
Al di là degli innumerevoli premi ricevuti, quale considera il «suo» premio speciale? «Ero ad Atene anni fa. Dirigevo l’orchestra sinfonica della radio, eravamo in prova. Attacchiamo la parte strumentale de La canzone del mal di luna, dal film Kaos. Alle mie spalle, si era formato un gruppetto di passanti che canticchiava a bassa voce la canzone. Chiesi: non è una canzone famosa, come la conoscete? Mi risposero: in Grecia la amiamo per la sua musica, non per il suo successo. Un premio migliore di questo!». È vero che gli americani pensavano che lei fosse Ennio Morricone sotto pseudonimo? «Un equivoco durato anni e che ho cancellato la notte dell’Oscar. Trattandosi però del grande Maestro e amico Morricone, lo consideravo uno pseudonimo che mi faceva onore».
Emilia Costantini, Corriere.it