Dopo il figlio avuto da Buffon, torna in Tv e racconta gli Europei. Qui invece racconta, come mai aveva fatto prima, il suo passato. A partire dalla telefonata di quel dottore, 43 anni fa
Al Liceo Ruiz di Roma, Robin Williams si chiamava Gianni Barbarella: «Era il nostro professore di Lettere. Ci aiutò a essere curiosi, a non farci suggerire dagli altri che cosa pensare, e a chiederci sempre il perché. L’ultimo giorno di scuola salimmo tutti sui banchi per salutarlo come nella scena finale dell’Attimo fuggente. Per lui ho provato un’attrazione che spinse mia madre, preoccupata, ad andarci a parlare. Un invaghimento letterario che solo un galantuomo equilibrato come lui avrebbe potuto ignorare». E se non fosse diventata maestra del racconto calcistico e politico, trascorrendo nel recinto domenicale di Sky Calcio Show più di un terzo della sua vita, a Ilaria D’Amico sarebbe piaciuto insegnare: «Per stare in mezzo ai ragazzi nell’adolescenza, il periodo fondamentale della formazione di chiunque».
Dopo 6 mesi di assenza dal video, per la nascita di Leopoldo Mattia, D’Amico torna in Tv per raccontare su Sky gli Europei in cui il padre del suo secondo figlio reciterà da Capitano della Nazionale: «Non è un nuovo inizio e non sento alcuna pressione, ma solo l’emozione e la felicità di tornare a fare il mio lavoro dopo essermi presa il giusto tempo per essere madre e aver oliato quella macchina complessa che è la famiglia allargata». Fuma poco: «Sono molto più dipendente dagli spaghetti che dalle sigarette». Ride spesso. Ammette che eleggere Milano come città adottiva le abbia fatto benissimo: «Lavorare qui ti restituisce ordine. E in un gruppo ordinato interpretare la parte della disordinata è una sofferenza». Di quale Ilaria D’Amico parla? «Di quella vera. So che assurdamente, solo perché approfondisco ciò di cui parlo, vengo considerata una secchiona. Ma sono sempre stata una disordinata tremenda. All’Università affrontavo gli esami studiando solo negli ultimi 3 giorni. A distanza di 24 ore avevo dimenticato tutto».
Non studia maniacalmente i testi dei suoi programmi?
«I fogli me li fece buttare anni fa Massimo Corcione, attuale direttore di Sky Sport: “Strappali, non ne hai bisogno. Ti serve solo imparare ad ascoltare di più”».
Corcione aveva ragione?
«Totalmente. Ascoltare ti permette di gestire le tensioni e intervenire quando – e in Sky Calcio Show succede spesso – la calma apparente si trasforma in tempesta».
Nella sua vita di ieri c’è stata più calma o più tempesta?
«C’è stata calma, c’è stata tempesta, c’è stata gioia e c’è stata anche paura. Da bambina andavo a scuola dalle suore ed ero terrorizzata dalla madre superiora. A forza di vedermi rigettare ogni mattina, mia madre Antonia capì e mi cambiò di istituto».
Era irrequieta?
«L’altra sera ho incontrato Luca Carboni e gli ho confessato che scappai di casa per vedere un suo concerto. Non mi sono mai messa nei casini, ma ero un’adolescente affamata di vita. Volevo uscire e addentarla. Mia madre, per altri versi di vedute molto aperte, con me tenne la briglia stretta».
Perché?
«Ho una sorella maggiore. Una persona tranquilla, con tutte le doti che a me mancano. Una che tra le mura di casa stava benissimo. Più mia madre le diceva “Perché non esci?”, meno a lei veniva voglia. Ritrovarsi con me che desideravo tutto il contrario la mise a dura prova. Mia madre “Perché non esci?” a me non l’ha mai detto».
E lei usciva lo stesso?
«Mi piaceva stare in mezzo alla gente, alle feste in discoteca, e discoteca per mia madre significava una cosa sola: droga, aghi, cocaina, dissoluzione. La cocaina c’era, ma con me avrebbe potuto star tranquilla».
Perché?
«Sa come mi soprannominavano le amiche? Digos. Ero la rompipalle che finiva per controllare gli altri. Non so se sia stata paura che qualcuno potesse approfittarsene o timore di non essere più padrona di me stessa. Ma alle feste mi fermavo al secondo bicchiere di vino e non ho mai avuto voglia di andare oltre. Poi magari ballavo fino alle 6 del mattino, ma lucida. Senza veleni. Al massimo a dare la pozione sono stata io».
Scusi?
«Mia madre non voleva farmi andare in discoteca e così mi feci consigliare da un amico che studiava Farmacia il sonnifero giusto da mettere nel vino, una sera, per addormentare lei e il suo compagno. Dormirono fino a quando, sospettando di aver sbagliato il dosaggio e di averla combinata più grossa del previsto, non li svegliai io tornando a casa».
Ma lei non ha fatto altro che scappare?
«Non sempre andava bene. Una sera, al mare, dico a mia madre: “Dormo al piano di sopra”. Salgo, mi vesto di soppiatto, mi calo dalla finestra e mi preparo a scavalcare il cancello del giardino. Lei era dall’altra parte dell’inferriata».
Come definirebbe il vostro rapporto?
«Totale, pur nel rispetto delle nostre indipendenze. Fin da quando sono nata, nel 1973. Mia madre conduceva già da tempo un’aspra battaglia per separarsi dal marito e portare la prima figlia con sé. A quell’epoca la patria potestà era la regola e mio padre non lo avrebbe mai permesso. Dormivano separati quando all’improvviso morì mio nonno materno. Una notte, mentre lei elaborava il lutto, ci fu un momento di tenerezza».
Quel momento era lei.
«Si figuri la sua felicità per quella figlia arrivata per caso. Prigioniera di un matrimonio che non aveva mai trovato pace, col dubbio di poter perdere ogni libertà residua, si disse: “Non posso”. Tenne nascosta la gravidanza e decise di abortire. Contattò un medico che operava in clandestinità, si confidò con un’unica amica, tacque con la madre e con le sorelle, prese l’appuntamento con il dottore e fissò il giorno».
Poi che cosa accadde?
«Mia madre era cattolica, ma in chiesa non andava. Aveva fatto il ’68, ma era già inserita nel ciclo figli-lavoro-produzione. Non sentiva un conflitto morale. Per lei l’aborto era una scelta individuale che spettava alla donna. Però, certo, era un passo traumatico. Una cosa da cui non si tornava indietro. Una notte sognò suo padre e a quel sogno, qualche giorno dopo, seguì una telefonata. Era la segretaria del medico che si scusava. Il dottore si era dovuto trattenere a Firenze e avrebbe potuto operarla solo nel pomeriggio. “Non vengo più, grazie”, disse. Poi riagganciò. Era il segno che aspettava».
Se avesse scelto diversamente?
«Semplice. Non sarei qui». (…)
Vanity Fair