L’esposizione che celebra la liaison tra arti visive e femminismo in Italia è supportata da Dior e dalla sua direttrice creativa. Quella Maria Grazia Chiuri che, prima donna alla guida della Maison, non smette di ricordarci attraverso T-shirt di culto, installazioni poetiche, riflessioni profonde e grandi mostre, che ogni conquista fatta va sempre difesa
Sarà aperta fino al 26 maggio al FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, all’interno dello storico complesso industriale dei Frigoriferi Milanesi, la prima grande mostra che indaga i rapporti tra arti visive e movimento femminista in Italia. Curata da Marco Scotini e Raffaella Perna, la mostra Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia ricostruisce un panorama artistico rimasto per troppo tempo nell’ombra, individuando nel 1978 l’anno catalizzatore di tutte le energie femminili in campo.
Che ruolo ha Dior in tutto questo?
Semplice: l’esposizione è realizzata con il contributo della Maison, intervento che non ci coglie di sorpresa e che possiamo identificare come un’evoluzione naturale del «Chiuri-pensiero». Fin dalla sua collezione di debutto nel 2016, Maria Grazia Chiuri, prima donna alla guida della maison francese, portò in passerella per la PE 2017 di Christian Dior la sua idea di femminismo, legata alla cultura più che al genere. Quell’anno fece sfilare una serie di T-shirt bianche con la scritta «We should all be feminists».
Nel 2017 fu la volta di una riflessione seguita alla lettura del libretto/manifesto di Linda Nochlin, che nel ’71 si domandava: «Perché non ci sono state grandi artiste?». Altra stagione (la PE 2018), altra T-shirt, altro slogan che divenne culto. Altra meditazione sugli stereotipi che ci hanno sempre volute un passo indietro. La filosofia del direttore creativo di Dior, a cui è stata carta bianca per ogni cosa che fa (non pensiate sia la conseguenza scontata di una nomina), raggiunse il culmine lo scorso febbraio.
Durante la Fashion Week parigina, sulle magliette di Dior per il prossimo inverno comparvero le tre frasi «Sisterhood is Global», «Sisterhood is Powerful» e «Sisterhood is Forever», riferite alle opere della scrittrice e attivista femminista Robin Morgan. Ma la designer si spinse oltre, commissionando l’allestimento del set della sfilata al Musée Rodin a Bianca Pucciarelli Menna, l’artista che negli anni ’70 scelse lo pseudonimo maschile di Tomaso Binga per criticare e prendersi gioco della società e del sistema artistico che sfavorivano ed emarginavano le donne.
Vi ricordate come erano decorati i muri della location? Erano pieni di stampe che ritraevano il corpo nudo della poetessa mentre simulava delle lettere: quelle fotografie, focalizzate sulla potenza del linguaggio e del corpo delle donne come veicoli per esprimersi liberamente, sono parte dell’Alfabetario Murale di Tomaso Binga del 1976.
L’artista, 88 anni, è stata tra le prime donne a partecipare alla Biennale di Venezia. Era il giugno 1978 e la mostra di allora, curata da Mirella Bentivoglio e intitolata Materializzazione del Linguaggio, radunò un’ottantina di artiste – tra cui, oltre a Binga, Lucia Marcucci, Irma Blank, Maria Lai, Giulia Niccolai, Mira Schendel, Anna Oberto, Patrizia Vicinelli – che rivendicavano spazio e visibilità in un luogo difficile da conquistare se non si era uomini.
Elena Banfi, Vanity Fair