Il film «Non ci resta che il crimine» racconta l’epopea della banda della Magliana. Con accenti da «poliziottesco»
Tra «Er Bove» e «Operaietto», pippando dune di coca al night, la pistola nei pantaloni a zampa e il grugno feroce, Edoardo Leo passa dalla banda dei ricercatori di Smetto quando voglio alla banda della Magliana.
Infatti quest’erede di Nino Manfredi, impostosi in via definitiva con Perfetti sconosciuti, sguazza come un pesce nell’acqua dentro il ruolo del boss dei boss. Cioè quell’Enrico De Pedis, detto «Renatino», che fece tremare Roma nella Prima Repubblica, finendo sepolto come un papa nella basilica romana di sant’Apollinare. Dove il delinquente classe ’54, morto ammazzato a 36 anni, ha portato con sé pure il mistero del sequestro Orlandi. Per fortuna, nel solido poliziottesco all’italiana di Massimiliano Bruno, Non ci resta che il crimine (da giovedi con 01, nel cast: Giallini, Tognazzi, Gassmann e Pastorelli), l’ attore del momento toglie la patina corrusca al malvivente, trasformandolo in icona pop per esigenze di copione. Condannabile, certo, ma spassosa in tutina da membro dei rockettari Kiss o patetica mentre teme le corna della sua bella (Ilenia Pastorelli) e temibile quando spara in testa al suo amico Er Sorcio .
Nella cultura di massa, «Renatino» ha ispirato Romanzo criminale, al cinema e in tv, però qui siamo dalle parti dell’«action comedy» scanzonata, che guarda a Ritorno al futuro. Se tre balordi del 2018, che organizzano tour sui luoghi della banda della Magliana, tornano indietro nel tempo, all’epoca dei Mondiali dell’82, tutto è possibile. «A me piace scuotere il pubblico, non renderlo mansueto», dice l’aitante Edoardo, per la prima volta nei panni del cattivo. Ce ne sarà un’altra: è l’anno della svolta per lui, una trentina di film all’attivo, un David e una carriera alla quale imprimere un twist.Nel 1982, De Pedis prendeva Roma e lei aveva 10 anni: come ha lavorato sul personaggio?
«Su di lui c’è un immaginario di riferimento, tra film, serie e romanzi. Ho accantonato tutto e ho lavorato senza cercare biografie da leggere, ma provando a esasperare alcuni tratti del personaggio. La gelosia, per esempio. O la ferocia. Le ho moltiplicate per mille».
Si è trovato a suo agio nello smitizzare il boss, interpretato da Claudio Santamaria in Romanzo criminale?
«Sì, dal momento in cui mi sono convinto che il boss potesse risultare divertente, nella sua assoluta cattiveria. È la prima volta che interpreto un tale personaggio. E, oltre al regista, ringrazio i colleghi, che sono anche amici. Mi hanno sempre incoraggiato e fatto i complimenti. È difficile, nel nostro ambiente, che si collabori a questo livello».
Quali sono, per lei, le scene più difficili da girare?
«Quelle di sesso. Ho sempre fatto fatica: a volte, passa solo un’ora da quando conosci l’attrice con cui lavorerai, a quando ti metti lì… Bisogna annullare in fretta i rispettivi pudori. Non è facile».
Nel film di Bruno il suo look è studiato: catenina d’oro al collo, braccialetti ai polsi, chiodo in pelle. E quella cofana da coatto
«Trucco e parrucco, abbastanza complicati. Soprattutto quando abbiamo girato la scena della rapina, con le tutine colorate dei Kiss: tre ore e mezza di trucco, per cinque giorni di fila».
Che cosa ricorda dei Mondiali di Spagna, giugno 1982?
Ero un ragazzino e io i Mondiali li ho giocati davvero almeno, così credevo. Mi sentivo Bruno Conti nel campetto sotto casa e, tirando calci al pallone, ero convinto di averli vinti io, i Mondiali».
Ne Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri sarà un ex-pugile, esperto in recupero crediti a mani nude.
«Il bello del mio mestiere è il gusto di trovarti dentro esistenze molto distanti dalle tue».
Cinzia Romani, il Giornale