(Nino Materi, sickness Il Giornale) Ha chiamato così il suo barboncino, che non lascia mai. Dopo le trasmissioni di successo, i soldi e i corteggiatori sopravvive con 600 euro al mese e l’aiuto degli amici.
C’è solo una 72enne al mondo che, quotidianamente, ha il piacere di ricevere le coccole da Richard Gere. Si chiama Isabella Biagini, all’anagrafe Concetta Biagini, nata a Roma il 19 dicembre 1943. Richard Gere è il nome del suo barboncino bianco, che lei «ama più di qualsiasi cosa al mondo».
E in questo mondo, di cose ancora da amare, non gliene sono rimaste tante: «Sono un’animalista convinta. Porto da mangiare a cani e gatti. A modo mio faccio volontariato, aiuto i bisognosi. Anche se ad avere bisogno di aiuto, con 600 euro di pensione al mese, spesso sono proprio io. Per anni sono stata vittima dell’apatia che non mi faceva alzare dal letto, vegetavo in casa. Ero ingrassata. Ma poi ho avuto la forza di reagire, di uscire. Di tornare a realizzarmi ed essere orgogliosa di me stessa. Ho pianto per la morte di Laura Antonelli, non meritava di finire così. Anche lei, come me, era stata abbandonata da tutti. Anche lei, come me, aveva trovato rifugio nella fede. In certi momenti brutti della vita, scopri che solo Dio può darti conforto».
Qualche anno fa passò un momento difficilissimo: venne fotografata su una panchina, sotto una coperta, intabarrata in un cappottaccio e con un cappello di lana. Con le lacrime agli occhi confessò: «Temo di diventare una barbona, non ho più soldi…». Quell’incubo è svanito. Ora Isabella appare in forma, col volto liscio, ben curata, elegante. Qualche giorno fa ha partecipato alla presentazione dell’ultimo romanzo di Giancarlo Dotto. Sorridente, felice di aver ritrovato una nuova vitalità. Anche davanti al buffet, dove ha assaggiato di tutto di più. Già, «di tutto di più»: un vecchio slogan della Rai, ma che potrebbe andare bene come jingle esistenziale per un’attrice che tra gli anni ’60 e ’70 ha recitato in decine di film con registi importanti e attori di grido. Commedie all’italiana dove ha incarnato spesso lo stereotipo dell’oca giuliva (un’antesignana rispetto all’altra celebre finta «oca», Sandra Milo). «Ho guadagnato tanti soldi, ma non mi è rimasto nulla. Colpa anche delle troppe persone sbagliate che ho incontrato. Ora sbarco il lunario partecipando agli eventi organizzati dai pochi amici che mi rimangono. Roberto D’Agostino è tra questi. La Bacchelli (la sovvenzione statale riservata gli artisti che hanno dato lustro al nostro Paese ndr) l’hanno data a cani e porci, ma a me no». E dire che di talento la Biagini ne aveva da vendere: «Sono stata la prima imitatrice donna. Insuperabile nel fare Mina!». Per la Rai prese parte a diversi varietà televisivi, tra i più noti la commedia musicale «Non cantare, spara» (1968), con il Quartetto Cetra e «Bambole, non c’è una lira» (1978). Maria Stella Conte, giornalista di Repubblica , annota: «Lei era la supermaggiorata. Lei era lei. Prodotto made in Italy di una sensualità dirompente, anni Sessanta: schiettamente carnale ma priva di ambiguità; simbolo di un erotismo domestico che si poteva immaginare con i capelli odorosi di ragù, le unghie con lo smalto rossofuoco smangiucchiato dal bucato, lo sguardo rassicurante di una femminilità un po’ ottusa che celebra se stessa».
Divenuti sempre più rari gli impegni di lavoro, Isabella si è dedicata ad attività di assistenza ai bisognosi: «Per quel poco che posso, continuo ad aiutare i più poveri, perché anch’io sono stata come loro e so quindi cosa provano. Cosa significhi l’umiliazione, la depressione, il bisogno di dipendere dagli altri. In quei momenti ho capito l’importanza di avere Richard Gere al mio fianco. I cani sono un bene prezioso che possono salvarti dal baratro. Loro non ti tradiscono mai. Gli umani invece…». Una vita sentimentale difficile la sua con due matrimoni fallimentari. Ma la mazzata più grossa è stata la perdita dell’adorata figlia, Monica: «Si ammalò di un male incurabile. Ricordo, nel 1999, poche settimane prima della sua morte, le facevo visita in ospedale con mamma. Ci mettevamo le parrucche, come se dovessimo scappare al lavoro. Lo facevo per tranquillizzarla, per strapparle un sorriso: “Sai, Monica, hanno dato una piccola parte anche a nonna”. Mentivo. Il lavoro era svanito. E di sorridere non ne avevo nessuna voglia».
Il dolore terribile e il terrore che le fosse tolta la casa, la spinsero a farsi fotograre con indosso un paio di jeans, scarpe di plastica e una coperta su una desolata panchina di un parco: «Avevo comprato la casa con i risparmi di una vita per intestarla a mia figlia, ma lei morì due giorni prima di firmare il contratto così decisi di intestarla a mia madre perché si trovava in una situazione difficile e aveva un marito che giocava ai cavalli. Quando mia madre morì il mio fratellastro, approfittandosi della mia depressione, tentò di reclamare diritti su quella casa non firmando la rinuncia. Ma ormai è acqua passata».
La gente ancora la riconosce e lei non si sottrae, ripercorrendo i suoi inizi di carriera: «Nel 1955, l’attrice Anna Magnani, che era amica di mia madre, mi presentò al famoso regista Michelangelo Antonioni. Io ero una ragazzina dal seno rigoglioso, già spuntato in maniera prorompente a nove anni. E per questo venivo notata da tutti gli uomini. Quando fui al cospetto di Michelangelo, arrossii per i suoi complimenti. Lui mi chiese se volessi interpretare una parte in un suo film, intitolato Le amiche . Mamma insistette tanto e alla fine esordii nel cinema. Anche se, glielo posso garantire, il mio sogno era farmi suora».
La Biagini non entrò in convento, ma varcò la porta principale del cinema. La volle anche Fellini. «Oltre che un grande regista, consideravo Federico un galantuomo e un caro amico. Spesso passava a trovarmi a casa, telefonava a Giulietta Masina, sua moglie, per dirle che si sarebbe trattenuto a pranzo da me e mia madre: “Sono da Isabellina, mi sta preparando la pasta al ragù”, le diceva con un tono di voce suadente. E anche Giulietta mi voleva bene. Sapeva che di me poteva fidarsi. Non andavo certo a caccia di uomini, io. E le posso giurare che Fellini non mi ha mai corteggiata».
In una lunga intervista amarcord con Lucio Giordano confessa: «A vent’anni ero già madre della mia unica figlia, Monica. Con mio marito mi ero separata subito dopo la nascita della bambina e, pur di non farmela togliere dal tribunale, cominciai a lavorare tantissimo nel mondo del cinema e della tv. Ricordo che il giudice, prima di emettere la sentenza di divorzio, mi chiese come pensassi di mantenermi e di mantenere Monica. Gli mostrai allora i contratti di lavoro, i compensi».
Alla fine degli anni ’60 Isabella è una star: «Lavoravo quasi tutte le sere. E venivo pagata molto bene. Ma non mi staccavo mai da mia figlia. Di giorno l’andavo a prendere a scuola, pranzavamo insieme poi, nel tardo pomeriggio, salivo in macchina e andavo. Una volta a Milano, l’altra a Napoli, l’altra ancora a Firenze o a Torino. Guidavo ore, arrivavo a destinazione e tra gli ospiti di spicco della serata mi esibivo per prima, come da contratto». Il motivo di «tanta fretta»? «Semplice. Volevo tornare a casa prima dell’alba. Volevo che al suo risveglio Monica trovasse la mamma. Facevamo colazione insieme, con i maritozzi alla panna. Poi l’accompagnavo a scuola e finalmente potevo dormire qualche ora».
Anche adesso dorme poco Isabella. Non c’è notte che non sogni la sua Monica. Poi, al risveglio, c’è lui: il suo «amore», Richard Gere. Che le lecca il volto, facendole le feste. Vivere ha ancora un senso. E poi c’è l’emozione di portare ogni giorno un mazzo di fiori al cimitero: «Sulla tomba di Monica le margherite fresche non mancano mai. Qualche volta vorrei portare delle rose. Ma costano troppo…».