È dalla fine degli anni 80 che l’Italia è terra di immigrazione. Un tempo più che sufficiente per fare un bilancio sul modello di integrazione sociale. E, forse, anche della rappresentazione dell’Italia sempre più piena di nuovi italiani o aspiranti tali. È come se stessimo applicando verso di loro una sorta di protezionismo narrativo. Asiatico o africano, mediorientale o europeo, l’immigrato ha solo due possibilità: o dimostrare gratitudine con comportamenti rispettosi, o confermare il nostro cripto-nazionalismo parlando e agendo come noi. I nostri attori, politici, conduttori televisivi, scrittori e opinionisti (per citare categorie più esposte mediaticamente) sono tutti italiani; e, quando non lo sono, è solo perché ci imitano confermando la bontà della nostra chiusura. Il caso più clamoroso di questo protezionismo narrativo è in tv. Lo spettacolo, forma popolare per eccellenza, è esclusivamente italiano. Non un cantante, non un comico, non un conduttore, non una fiction nate ed emerse dalla moltitudine degli immigrati. Sembriamo fermi al cameriere nero Aziz di casa Zampetti, nel telefilm anni 80 I ragazzi della III C o a Idris, ospite fisso a Quelli che il calcio di Fabio Fazio. Poi, nulla o quasi. Nell’intrattenimento non c’è spazio: l’immigrazione in tv o è un problema di ordine pubblico, un discorso politico, o fa piangere di commozione. Ma così non solo non allarghiamo lo sguardo sul nuovo Paese reale, ma perdiamo pure inedite forme di racconto finanche brillanti e comiche, visto che quelle italiane mostrano segni di stanchezza. Ad esempio la Rai potrebbe cercare e lanciare nuovi volti, contaminando e arricchendo l’italianità con forme «lontane» e «diverse» di racconto. Potremmo così scoprire che gli immigrati sanno anche ridere e far ridere. Dobbiamo superare la paura che aprirsi agli altri sia un cedimento identitario.
Andrea Di Consoli, Corriere della Sera