Il suo sguardo beffardo nel manifesto ufficiale, dietro gli occhiali di Mars Blackmon in Lola darling. Un menu della cena con i colleghi giurati costruito con i titoli dei suoi film, Jungle Fever, Malcom X, She Hate Me. Un premio alla carriera al suo collaborare storico, il montatore Barry Alexander Brown, per il loro lavoro comune come pionieri nella promozione di «inclusione, diversità e giustizia sociale». È il momento di Spike Lee, primo presidente di giuria nero sulla Croisette dal 1946, un tabù rotto con oltre un anno di ritardo causa pandemia. Che ci tenga a fare la storia lo sottolinea dai particolari, come il cappellino scelto per l’incontro stampa, con una scritta, 1619, che segna l’inizio della schiavitù in America e richiama una delle campagne che stanno a cuore a Mister President: ricordare gli effetti di quella tragedia e il contributo degli afroamericani nella storia Usa. In quanto a lui, inizia togliendosi un sassolino personale, riguardo al suo secondo film a Cannes, Fa’ la cosa giusta, presentato nel 1989 — il primo fu Lola darling, Prix de la Jeunesse — ma escluso dal palmarès. «Molta stampa Usa, mi accusò di istigare la violenza con quel film. Un paio di settimane fa cadeva il suo 32esimo anniversario, l’ho scritto nel 1988. Quando vedo Eric Garner, George Floyd assassinati, linciati mi viene da pensare a Radio Raheem — il personaggio di Fa’ la cosa giusta ucciso dalla polizia, ndr — . Trent’anni dopo i neri sperano di non essere più cacciati come animali». Non si tira indietro di fronte alla sollecitazione di una giornalista georgiana che chiede solidarietà e impegno a denunciare la repressione a Tbilisi di giornalisti e attivisti lgbt+. «La ringrazio. Questo mondo è diretto da gangster senza morale, da bastardi senza scrupoli», sottolinea riferendosi anche al presidente Bolsonaro, evocato da uno dei compagni di giuria, il regista brasiliano Kleber Mendonça Filho. Gli altri sono altri due cineasti, l’austriaca Jessica Hausner e la francese Mati Diop, e quattro attori, l’americana Maggie Gyllenhaal, il sudcoreano Song Kang-Ho (il padre di famiglia in Parasite di Bong Joon-ho, ultima Palma d’Oro, nel 2019), la francese Mélanie Laurent, Tahar Rahim francese di origini algerine, e la cantautrice Mylène Farmer. Non si sbilancia sui criteri per il palmarès. Fa capire che sarà un presidente democratico, si preoccupa di non togliere spazio agli altri. E, seppur barricadero come sempre, concede un tocco democristiano. «Cannes? È il più grande festival del mondo, senza nulla togliere agli altri». Ma lancia una frecciatina, lui che ha realizzato l’ultimo film, Da 5 Bloods, con Netflix, qui piattaforma non grata. «Cinema e piattaforme possono coesistere. Un tempo si diceva che la tv avrebbe ucciso il cinema. Sono cicli». C’è spazio anche per i ricordi. «Uno dei più memorabili festival di Cannes non ha nulla a che vedere con i film. Era il 1990, i New York Knicks erano forti, eravamo in finale NBA. Ho volato da Nizza New York per una partita e tornato indietro. Ma persero». Più tardi, alla cerimonia ufficiale in completo fucsia, elogia la festeggiata (con Palma d’onore) Jody Foster. «Vorrei parlare francese come lei». Sulla Croisette era arrivato tre giorni fa ostentando la tuta del Paris St-Germain. Per la cronaca, non tutti hanno apprezzato. Ma Spike sa come farsi perdonare. E gli piace muoversi da leader. Arrivato a Parigi, è andato in visita dall’ambasciatore del Camerun e ha assicurato la sua presenza alla Coppa d’Africa 2022.
Stefania Ulivi, corriere.it