Ritorna Vasco Brondi, alias Le Luci della Centrale Elettrica, con un nuovo album, ‘Terra’, che racconta tutta la tristezza e la bellezza del mondo di oggi: “Per tornare a essere felici bisogna mettere in discussione l’idea che ci si possa realizzare solo attraverso un certo tipo di lavoro”
“Mio Dio, questo è un paradiso”, pensò Mae quando entrò nel campus ultra hi-tech. E se invece fosse l’inferno? Il cerchio di Dave Eggers, quel “vivere tracciabile nei desideri, nei movimenti”, si chiude sulla Terra di Vasco Brondi, in quel suo “morire con la febbre alta a Tangeri” (nel brano Moscerini) che riecheggia “gli amanti vampiri del Jarmusch di Only Lovers Left Alive e la beat generation di Burroughs”, e di tutti quelli che provavano a bere con tutta l’intensità possibile dalla coppa della vita. Perché c’è vita sulla Terra. E vi si racconta un mondo nuovo, quello di oggi, sopravvissuto a “questi cazzo di anni zero” come cantava – anzi urlava – Vasco ormai quasi dieci anni fa in La lotta armata al bar. Da allora non si è mai fermato: dischi, libri, viaggi, pensieri, graphic novel e ora anche la nomination ai David di Donatello per L’estate addosso, brano che prende il titolo dal film di Muccino di cui ha scritto il testo insieme a Lorenzo Jovanotti Cherubini.
Un nuovo album, Terra, appunto, prodotto insieme a Federico Dragogna de I Ministri, una band con cui ci sono molte affinità: l’etica del lavoro prima di tutto. In copertina quelle che sembrano sculture primordiali composte di pietre colorate, in realtà un’installazione di land art di Ugo Rondinone nel deserto del Nevada: “Fanno capire come gli esseri umani riescono a rendere bello anche un deserto, oppure sono una metafora di Las Vegas, a mezz’ora di distanza, del suo niente luccicante”. La fotografia che ritrae l’installazione invece è di Gianfranco Gorgoni, abruzzese, uno dei più importanti fotografi di land art “ma era anche sul palco di Woodstock a fotografare Jimi Hendrix e poi, a New York, Andy Warhol e Basquiat”.
Cosa hai fatto nei due anni passati dal precedente disco, Costellazioni?
“Alla fine del tour ho preso l’abitudine di viaggiare. In teoria lo faccio per scrivere, ma non va mai così. La musica mi continua a stupire perché è una specie di macchina del tempo che ti porta in pochi secondi in luoghi lontani. Per esempio, in questo disco ci sono degli echi di un viaggio fatto a Mostar a diciott’anni con un amico: era stato il primo contatto fisico con un luogo di guerra e vedere le case scoperchiate, i buchi dei proiettili e le signore che ti affittano le case con le stanze vuote dei figli morti per me è stato un trauma. Però c’erano anche le feste, tutte le sere, nelle case abbandonate, sentivi voglia di vivere intorno a te. La cosa incredibile è che quei ragazzi non volevano fare monumenti alla memoria ma vivere il presente e pensare al futuro, non scavare nel dolore, il passato gli era già così appiccicato addosso… C’è una strofa di una canzone di questo disco, che si intitola Coprifuoco, che viene direttamente da lì. Nel ritornello dice: ‘Dove c’era un minareto o un campanile c’è un albero in fiore tra le rovine’. Si era ripreso il suo posto: una volta ridiventate polvere la chiesa e il minareto erano uguali. Scrivendo questo disco mi sono reso conto che cose che nemmeno credevo riguardassero la mia vita mi erano invece entrate nel profondo e sono uscite fuori molti anni dopo, grazie alla musica”.
In Coprifuoco dici anche: “Tra le rovine ci siamo noi due accecati dal sole mentre cerchi di spiegare/ cos’è che ci ha fatto inventare/ la torre Eiffel le guerre di religione/ la stazione spaziale internazionale/ le armi di distruzione di massa e le canzoni d’amore”.
“In quel ritornello riecheggiano le parole di Jared Diamond che, in un suo libro intitolato Il terzo scimpanzé, si chiede quale tipo di scimmia abbia potuto sviluppare le armi più sofisticate e, allo stesso tempo, le canzoni d’amore. L’essere umano è la creatura più contraddittoria che esista e questo concetto è presente anche in Stelle marine: ci pensavo un po’ di tempo fa leggendo la lettera a Repubblica della madre di Giulio Regeni, dove dice che in questo anno passato ha potuto assistere a tutto il male del mondo, quello che stava intorno alla morte di suo figlio, ma anche a tutto il bene. Quello che veniva da persone completamente sconosciute, madri, padri come loro, ragazzi come Giulio, che le hanno scritto portandole una testimonianza d’affetto davvero incredibile, fondamentale per andare avanti”.
Giulio Regeni incarna anche quella parte di giovani che non rinuncia al sogno e va all’estero pur di realizzarlo, anche loro ‘dreamers’, come vengono definiti i profughi a cui Trump vorrebbe sbarrare le porte, persone che vanno a cercare il lavoro dove c’è.
“Per me non è solo quello ma anche il fatto che i giovani percepiscono i confini labili, nonostante tutti i tentativi della politica di mettere muri. Facendo un esempio piccolo, io vedo ragazzi oggi che tifano per squadre non italiane; che so, il Real Madrid. Una cosa inconcepibile fino a pochi anni fa”.
Cosa è cambiato dai tempi in cui cantavi cose come Fare i camerieri, nel 2007, o L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici, nel 2010?
“Prima guardavo il pubblico al di là della transenna e rivedevo me stesso, adesso che sono già passati dieci anni da quando ho iniziato e il pubblico si è molto ampliato vedo gente di tutte le età. Soprattutto, ci sono anche ragazzi molto più giovani di me, che sento diversi, ed è anche una bellissima sensazione per quanto straniante. Quando ci parlo dopo i concerti mi stupiscono i loro gusti musicali, per esempio”.
Perché?
“Un tempo i confini erano più rigidi: io ascoltavo i CCCP e gli Afterhours, la scena indipendente insomma, e poi al massimo De Gregori e Battiato, loro invece postano sui social network il biglietto del mio concerto e magari quello di un loro coetaneo che fa hip hop. Però c’è una cosa che non cambia nelle diverse generazioni: anche se ascoltano musica che io non capisco, al di là delle parole, al di là della stessa musica, quello che conta per tutti è che dentro ci senti la vita, il cambiamento, la prospettiva di qualcosa di diverso che va in risonanza con ciò che hai dentro”.
Sei stato il primo a cantare la precarietà della tua generazione, in una maniera che non era né vittimistica, né rivendicativa, fatto che mi stupiva moltissimo perché ero abituato alla ‘protesta’ in un certo tipo di musica. Adesso, dopo quasi dieci anni di precarietà, come stai tu e come sta la tua generazione?
“Non voglio essere frainteso, ma secondo me in questa fase siamo ormai arrivati all’accettazione della realtà, il che – credo – non è passività ma il contrario, perché solo partendo dai dati di fatto riusciamo a intervenire nel mondo. Anche l’individualismo assoluto in cui siamo cresciuti può avere accezioni positive”.
Quali?
“Ci stiamo rendendo conto che partire da noi stessi può servire per relazionarsi meglio agli altri: si riscoprono i rapporti personali il che, forse, è molto banale da dire, ma è l’unico modo per non essere frustrati dal mondo che ti sta intorno e che spesso ti respinge. Tutto, comunque, è diventato così variegato e complesso che non puoi offrire soluzioni semplici e neanche essere rappresentativo di qualcun altro. Questo vale pure per la musica: ne parlavo con Massimo Zamboni. Anche lui diceva che nella maggior parte delle produzioni di oggi, italiane e straniere, ti capita di pensare a chi c’è dietro e vedi dei ragazzi con un computer mentre non era così per il punk o l’hip hop”.
Dietro c’era la strada.
“E, appunto, si sentiva”.
Per questo sei tornato alla Terra.
“Sì, ho ascoltato molta musica africana e dell’Est. Oggi, a Ferrara, senti solo musica balcanica per le strade”.
Così hai fatto un disco tanto diverso, pieno di suggestioni etniche…
“Sì. Di un’etnia che non esiste e che poi è la nostra, di questo tempo dove tutto è mescolato e complesso, come dicevo. Ho ascoltato molto Bombino, che è puro rock’n’roll. Mi piace perché fa il contrario di quello a cui siamo abituati, parte dal suo luogo d’origine e arriva all’Occidente: è i Rolling Stones con le scale di un altro continente, mentre siamo abituati ai Beatles o agli stessi Rolling Stones che vanno a cercarsi un sitar e lo mettono nella loro musica. Amo anche Amadou & Mariam e i Tinariwen il cui ultimo disco, Elwan – che mi pare significhi ‘Elefanti’ – è stato prodotto da Alain Johannes dei Queens of the Stone Age e in cui ci sono anche Mark Lanegan, Kurt Vile e Matt Sweeney. Poi c’è stata molto anche l’influenza di Enzo Avitabile che è una dei miei artisti preferiti in Italia, e non solo: l’ho scoperto tardi, con l’album Black Tarantella che mi ha veramente folgorato; dopo ho visto il film di Jonathan Demme a lui dedicato, Enzo Avitabile Music Life: il modo in cui mescola le cose mi ha cambiato la prospettiva. Nei suoi dischi puoi trovare un brano coi Co’Sang, uno con Guccini e suggestioni arabe… Nel suo ultimo album, Lotto infinito, ci sono pezzi con De Gregori, Caparezza, Paolo Fresu e Renato Zero: magia pura. Non lo conosco di persona ma per me è un punto fermo, sono un suo grande fan”.
A proposito, c’è un pezzo come come Profondo Veneto che inizia con percussioni etniche per raccontare una storia di casa nostra, la storia di una sconfitta che in metafora diventa quella di una generazione quando dici: “Con dissimulata indifferenza torni a casa dei tuoi genitori/ nel profondo Veneto dove il cielo è limpido/ dove il sole come te è sempre pallido/ dietro di te le macerie, le false speranze/ le case in cui avresti voluto vivere (…) ti leggeranno in faccia che dicevi di stare bene qui a Milano e invece facevi la fame”.
“Sì, è vero, però lo faccio raccontando la storia di una singola persona e senza metterci nessuna bandiera sopra, di nessun colore. Credo, sì, che ci sia la possibilità di andare a guardare dentro il sentire umano e di raccontare una storia, di raccontare questo grande ‘voglio di meno’ che è forse l’unica vera rivendicazione di oggi. È uno dei primi pezzi che ho scritto ed è anche apparentemente scanzonato, ma per me in effetti è molto importante: quella sconfitta potrebbe diventare una nuova vittoria. Segna il rendersi conto che al raggiungimento dei trent’anni si possa mettere in dubbio anche la nuova religione che è quella del conseguimento dell’affermazione lavorativa a qualsiasi costo. Guardiamo dall’alto verso il basso le altre religioni e non riusciamo a renderci conto della nostra, a cui sacrifichiamo tutto”.
Ovvero?
“L’idea del raggiungimento della felicità o quantomeno dell’identità attraverso il successo nel lavoro. Ma di quale lavoro? Il lavoro non c’è. Soprattutto quello che sogni, creativo e ben pagato. Va benissimo, può essere ‘vita’ darsi degli obiettivi, ma ci si deve porre dei limiti, pensare alternative se non si raggiungono, altrimenti diventa un fondamentalismo per cui ci troviamo tutti nella ruota del criceto. E da lì subentra la frustrazione e poi la rabbia che trovi sui social network. È un discorso supercomplesso questo e contraddittorio anche per me stesso, me ne rendo conto, perché anch’io continuo a perseguire il mio sogno di vivere con la musica. La mia unica giustificazione è che non ho la pretesa di risolvere niente, né di dare risposte: sono solo i miei dubbi espressi nella forma dei tre minuti”.
A proposito di social network, se ne parla in un altro brano, Iperconnessi, dove si dice “cantami o diva dello sciame digitale/ l’ironia sta diventando una piaga sociale/ cantami dell’immagine ideale/ da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale (…) cantami dei posti dove il wi-fi non arriverà mai”. Sta diventando una schiavitù?
“Non voglio chiamarmi fuori: anch’io non so come gestire i social network. Per me parlare di questo significa dare spunti di riflessione anche a me stesso”.
La gente non ne può più?
“Sì, e comunque le cose stanno cambiando. Fino a qualche anno fa le persone che avevano un atteggiamento ridicolo sul web erano ammirate da alcuni. Per anni è passata l’idea che fosse più figo criticare che creare”.
C’erano orde di ‘troll’ felici di poter distruggere qualsiasi espressione di qualsiasi tipo, con un cinismo orribile dietro quell’ironia che tu dici “sta diventando una piaga sociale”.
“È triste. Quando dico ‘i tuoi vent’anni alla fine sono passati abbastanza inosservati’ riflettevo sul fatto che quasi tutti i rivoluzionari veri avevano vent’anni: è una cosa forte se ci pensi. Tornando alla Terra, come recita il titolo del disco, al pianeta, credo che noi siamo qui per rivelarci, per fare qualcosa, per esprimerci, non per nasconderci. Bisogna avere il coraggio di affrontare questa pianura sconosciuta e forse piena di pericoli che è l’esistenza, affrontare la paura che ci viene anche iniettata quotidianamente e interrompere il circolo vizioso che porta a sentirsi impotenti: è ciò che fa andare al governo Trump. Basta anche con la rabbia: c’è bisogno di antidoti”.
Moltitudine o solitudine?
“Internet è una moltitudine di solitudini e l’ira della Rete si manifesta in modi imprevedibili – è stato studiato – che possono distruggere le persone: siamo tornati praticamente al Colosseo. È qualcosa da analizzare”.
FotoVasco Brondi, la nuova ‘Terra’ de Le Luci della Centrale Elettrica: “Vogliamo di meno”
Con i tuoi viaggi nei “posti dove il wi-fi non arriverà mai” come Ginostra o l’isola più sperduta delle Azzorre hai provato a disintossicarti?
“Credo faccia bene. Tra un po’ di anni forse andare su Internet sarà come fumare: aprirai Google e dopo mezz’ora ci sarà un avviso che ti avvertirà delle conseguenze del restare connesso, per farti riflettere se sei dentro la compulsione o stai facendo qualcosa che ti serve davvero: ‘Nuoce alla salute mentale e relazionale’. Se cominciano a esserci persone che sviluppano patologie gravi bisogna cominciare anche ad avvisarle dei rischi”.
Non hai il desiderio di ritornare a un mondo in cui tutto questo non c’era?
“Credo che ce l’abbiamo tutti. Ma poi c’è l’altra faccia della medaglia, quella buona. Non penso che ce ne libereremo, ma dobbiamo sviluppare una consapevolezza. Se ci rifletti, ti rendi conto che sei davvero bombardato da un eccesso di informazioni di cui prima si faceva tranquillamente a meno. Ho letto molto sull’argomento, per esempio libri di Byung-Chul Han come Nello sciame o La società della trasparenza, perché per me sarà essenziale per affrontare i prossimi anni. Non sono d’accordo su tutto ciò che dice, perché è veramente pessimista, però offre spunti molto interessanti come quello per cui adesso è considerata sincerità il fatto di esporre tutto: la trasparenza, appunto…”.
Non a caso l’ha ripreso Dave Eggers nel libro Il cerchio, in cui si parla di una meravigliosa azienda della new economy dove tutti vorrebbero lavorare, “un asteroide lanciato nel futuro e pronto a imbarcare migliaia di giovani menti”. Mae è appena arrivata e pensa sia il paradiso, così non esita a rinunciare alla propria privacy per abbracciare la “trasparenza assoluta”. Del resto “se non sei trasparente, cos’hai da nascondere?”.
“Per capire cosa c’è dietro, infatti, mi sono messo a leggere i curriculum di quelli che fanno le app e ho visto che molti hanno studiato psicologia comportamentale e studiano la compulsione umana: fa venire i brividi”.
Oltre a Byung-Chul Han e Diamond nel disco ci sono citazioni sparse qua e là, da Emily Dickinson in Stelle marine a Vittorio Sereni in Coprifuoco.
“Sì, mi piace molto fare dei rimandi, sparpagliare un po’ di cose. In Coprifuoco c’è Diamond insieme a Sereni e con in testa la voce di De Gregori. Tra le citazioni c’è anche Luciano Erba, uno dei miei poeti preferiti in assoluto, amo la leggerezza con cui riesce a entrare in profondità e quel suo verso, ‘Toronto è una Varese più grande’, qui ci sta benissimo. Viaggiare è importante anche per ridimensionare i miti: per esempio, per me vivere alcuni mesi a New York è servito a capire che non è meglio di Milano”.
La globalizzazione ha massificato tutto?
“Da un lato sì, dall’altro ha lasciato posti semideserti che sono rimasti assolutamente intatti, come ho potuto vedere nel viaggio sul Po che ho fatto con Massimo Zamboni e che è stato raccontato nel libro Anime galleggianti. Lo trovo molto interessante: è anche una possibile prospettiva”.
Nel 2014 Renzi mandò un tweet che citava un tuo testo, Le ragazze stanno bene, “non c’è alternativa al futuro”: sono due anni ma sembra un secolo. Anche quella che per alcuni forse era una speranza si è come sgretolata. Cosa diresti adesso?
“Che probabilmente non c’è alternativa ad andare al di là di questa logica del lavoro, dalla retorica del successo, al volere meno per stare meglio”.
“Allegri e disperati nei secoli dei secoli”, così si chiude il disco. Così siam (quasi) tutti. Stacco. Mostrando il dito medio Iggy Pop dice al pubblico convenuto a celebrare l’entrata degli Stooges nella Hall of Fame: “La musica è vita, la vita non è business”. Parte Search & Destroy. Gimme Danger: per ora noi la chiameremo felicità. Dissolvenza.
La Repubblica