Hanno paura di fare la stessa pessima figura dei colossi americani dell’informazione con Trump
Hanno tutti una gran paura. La paura di fare la stessa pessima figura dei colossi americani dell’informazione, dalla Cnn al New York Times carico di gloria, che all’indomani dell’elezione di un presidente «unfit to be president» come Donald Trump, sono stati costretti a fare autocritica e a spiegare ai lettori come e perché non fossero stati capaci di intercettare gli umori profondi (e quindi veri) della società americana, perché non avessero previsto neanche lontanamente l’arrivo del tycoon e di tutto il suo seguito di consiglieri destrorsi e reazionari, in una parola: perché non avessero fatto il loro mestiere – ascoltare e capire – nel momento forse più delicato della vicenda politica degli States.
In questi giorni, tra i dirigenti dei grandi media radiotelevisivi francesi, dalla rete ammiraglia della tv di Stato France 2 al canale privato, leader dell’informazione, TF1 (gruppo Bouygues), passando per le tv criptate come BFMTV (gruppo Altice Media di Patrick Drahi) e CNews che ha preso il posto di iTélé (gruppo Bolloré) e senza dimenticare le radio come Europe1 (gruppo Lagardère), numero uno nell’informazione, corre lo stesso sentimento di straniamento e di paura.
La paura di non riuscire a mettersi in sintonia con il paese, non capire le ragioni del suo malessere, farsi stordire dal chiacchiericcio dei talk show e delle «emissions politiques», le tribune politiche cui partecipa sempre la stessa compagnia di giro di portavoce, opinionisti, direttori di giornali, sondaggisti, politologi. La paura di non essere più capaci di ascoltare le parole di un ex operaio licenziato di Pas-de-Calais o quelle di un allevatore della Charente o, ancora, quelle di un pescatore del Finistère o di un giovane disoccupato di Saint Denis, cintura povera della capitale.
Insomma, perdere il polso della società, non avere più strumenti cognitivi (un paradosso nell’era della multimedialità) e quindi sbagliare sonoramente, come hanno sbagliato i grandi media americani per l’elezione di Trump e quelli inglesi (tranne i tabloid popolari, rozzi ma tutt’altro che ignoranti) per il referendum sulla Brexit.
Ecco perché in questi giorni – e il ritmo aumenterà nelle prossime settimane avvicinandosi la data fatidica del 23 aprile – è tutto un fiorire di programmi di approfondimento, d’inchieste, di reportage, di servizi speciali a quasi tutte le ore del giorno e tutti con una caratteristica fondamentale: poche chiacchiere in studio e molte interviste sul campo.
«On a engagé dans une campagne de proximité d’un envergure inédite», siamo impegnati in una campagna giornalistica sul campo come non si vedeva da tempo, ha spiegato la responsabile di tutta l’informazione di TF1, Catherine Nayal, una che da oltre trent’anni lavora per l’emittente della famiglia Bouygues, da quando fu assunta come stagista dopo l’università, e quindi parla a ragion veduta.
Non ha potuto non darle ragione, rivendicando però il ruolo della tv pubblica, il suo omologo a France Télévisions, Michel Field, fedelissimo della presidente Delphine Ernotte che l’ha assunto (come ha raccontato in diversi servizi ItaliaOggi) con il compito preciso di ristrutturare e rendere competitiva l’offerta informativa dei vari canali e delle varie reti della Rai francese.
Field, che si è fatto molti nemici con un piano di «rédressement», di ristrutturazione «lacrime e sangue» (peraltro ancora sulla carta), ha promesso che la tv pubblica in questa campagna presidenziale imprevedibile sarà con tutti i suoi mezzi «au plus près des tremblement de l’opinion, des phénomènes de societé impercettibles», come a dire: all’ascolto dei francesi, delle loro opinioni, e cercherà di intercettare il benché minimo cambiamento d’umore.
Una cosa mai vista, tanto da far dire con ironia a Christine Rousseau, esperta di media del quotidiano Le Monde, che è la prima volta che vede i suoi colleghi della radio e della tv «au chevet de leurs concitoyens», al capezzale dei francesi.
«Si parte senza pregiudizi, si ascoltano i cittadini e si mandano in onda le loro interviste», spiega con un sorriso felice Cécile Pigalle, direttrice dei programmi d’informazione del canale BFMTV. Le fa eco il direttore di France Inter, Jean-Marc Four, che è stato per anni corrispondente di Radio France a Londra: «È la riscoperta della nostra grande tradizione di reportage sul terreno». È la scoperta dell’acqua calda, verrebbe da rispondergli.
In ogni caso, tanta cura giornalistica ha già prodotto trasmissioni televisive come 13h15: les Français su France2, Route Nationale su Tf1 e un’autentica valanga di trasmissioni radiofoniche come Paroles de Français su Europe1, Une semaine en France su FranceInter, Une heure en France su FranceBleu, Carte d’electeurs su Rfi, Place de la République su France Culture, En voiture citoyens su rete LCI, la radio del gruppo Tf1.
Per non dire dell’interattività e della multimedialità, il far parlare direttamente i cittadini. Eric Ravel, direttore di France Bleu, ha già aperto la sua «Box Populi» dove tutti possono postare mail o cinguettii (tweet) che poi diventano altrettanti spunti di dibattito e approfondimento.
La radio Europe1, forte dei suoi successi, ha addirittura noleggiato un enorme autobus blu a due piani, vi ha caricato giornalisti e tecnici e l’ha mandato in giro per la Francia. Si chiama Le bus Europe1 de la prèsidentielle. Arriva nelle città (l’altro giorno era a Lione), pianta le tende (il suo gazebo blu) e i reporter cominciano a intervistare la gente. Com’è bello fare i giornalisti al tempo delle elezioni.
di Giuseppe Corsentino, Italia Oggi