«The Other Side of the Wind» era un’accusa a Hollywood: ne esistevano solo 40 minuti
«Sta tutto nel montaggio», dice Orson Welles nel bel documentario Mi ameranno quando sarò morto di Morgan Neville che la piattaforma Netflix ospita online a corredo della grande operazione su quello che viene definito l’ultimo film di Orson Welles.Ossia The Other Side Of The Wind, uno dei tanti progetti non conclusi dal regista di Quarto potere che negli anni ’70 ne ha montato solo 40 minuti. Quello che ora è disponibile su Netflix e in una manciata di sale tra Usa e Regno Unito (ma purtroppo non in Italia dopo la presentazione alla scorsa Mostra del cinema di Venezia) dura invece 122 minuti. Welles però non ha mai fatto film così lunghi… Ma certo non deve essere stato facile muoversi tra le più di cento ore di girato frutto del lavoro del mitico operatore alla macchina Gary Graver che, nei ritagli di tempo per vivere, girava soft porn e collaborava con Ed Wood.
La responsabilità di questa versione rimontata di The Other Side of the Wind è tutta del team produttivo e di scrittura formato dal regista (e attore nel film) Peter Bogdanovich, dai produttori Frank Marshall e Filip Jan Rymsza e dal montatore premio Oscar Bob Murawski. Il risultato è straordinario, la forza delle immagini è travolgente, con un montaggio sincopato, moderno, antiretorico, quasi folle. Con mezza Hollywood finita nelle riprese, da Dennis Hopper a Susan Strasberg, da Lilli Palmer a Tonio Selwart. Con quella voglia, un po’ datata per la verità, di smascherare il falso che si annida nella Mecca del cinema e che consente a Welles di togliersi più di un sassolino dalle scarpe. Un dispositivo cinematografico volto a negare la forza di quell’industria che, nella prassi, ha sempre oscurato la figura dell’«autore» così come canonizzata dai giovani turchi della nouvelle vague, Truffaut in testa, con la famosa politique des auteurs (nel film compare anche Claude Chabrol).Insomma si respira cinema a pieni polmoni così come è letteralmente esaltante il racconto che fa Morgan Neville nel documentario già citato Mi ameranno quando sarò morto (voce narrante dell’attore Alan Cumming), con il montaggio, anch’esso incalzante, di interviste a Orson Welles nell’ampio arco temporale, dal 1970 al 1985, in cui il regista ha lavorato a The Other Side Of The Wind prima della morte.
E poi c’è la storia del film, stratificata e metacinematografica, con un regista carismatico, ma anche razzista e misogino – il famoso cineasta J.J. Jake Hannaford interpretato addirittura da John Huston – che ritorna a Hollywood, dopo anni di esilio volontario in Europa, con l’idea di portare a termine l’innovativo film che segnerà la sua rentrée. Accanto a questo plot si snoda anche quello del film nel film che Hannaford/Huston sta girando con il pedinamento di una nativa americana – Pocahontas la chiama in senso dispregiativo il regista – interpretata da una sensuale Oja Kodar, l’attrice croata che è stata l’ultima moglie di Welles e che nel film appare muta, spesso nuda, e protagonista di una scena di sesso in auto. Una cosa mai vista nella filmografia di Welles. Si contrappongono così due film che sembrano appartenere a due mondi lontani, quello della New Hollywood (a cui fa da contraltare la figura del regista Hannaford/Huston che sembra rimandare più a figure come John Ford o Ernest Hemingway) con l’utilizzo caledoiscopico delle diverse inquadrature in altrettanti formati come il 16 mm e l’8mm, e quello più riflessivo, all’europea, girato in uno splendido 35mm a colori, che fa il verso a Zabriskie Point per intenderci (la villa del film è accanto a quella fatta saltare in aria da Antonioni, regista che Welles non apprezzava).
Questi due piani dovevano trovare un collante nella voce fuori campo di Orson Welles stesso che però non l’ha mai registrata. Come non ha mai terminato il film, rimasto bloccato anche per problemi di diritti per via dei capitali trovati addirittura in Iran. Tutta questa parte è molto ben raccontata in Un montaggio finale per Orson: una storia lunga 40 anni di Ryan Suffern, il secondo documentario che completa i contenuti speciali su Netflix.
Tutto bene quel che finisce bene? A rovinare la festa ci pensa qualche importante studioso di Orson Welles come Massimiliano Studer, autore di Alle origini di Quarto potere. Too much Johnson: il film perduto di Orson Welles, per il quale sarebbe più corretto parlare «di un film di Netflix che di Orson Welles». Invece secondo Esteve Riambau che, in Spagna, dirige la Filmoteca de Catalunya e che al grande cineasta statunitense ha dedicato quattro libri «l’operazione di Netflix è solo una ricostruzione possibile del girato e non un film miracolosamente finito». In particolare quello che il critico contesta è la manipolazione: «È un nuovo artefatto che si vuole vendere in nome di Welles ma che ha molteplici ingerenze che non hanno nulla a che vedere con Welles». E cita come esempio l’invenzione di Bogdanovich delle frasi da lui recitate all’inizio del film in cui viene inserito l’anacronistico riferimento ai «cellulari di oggi e al mondo digitale». Ma c’è di più, del montato originale di 40 minuti fatto da Welles, Riambau afferma che ci sono stati dei cambiamenti: «Un vero e proprio tradimento». Se a questo aggiungiamo che la colonna sonora è stata scritta ora da Michel Legrand; che alcune scene, come quella dei manichini contro cui Hannaford/Houston spara, sono state girate ex novo e con l’ausilio degli effetti speciali e che, infine, si è fatto ricorso a sosia vocali degli attori per inserire battute non registrate all’epoca, si ha meglio l’idea del livello di manipolazione.
E chissà che non avesse ragione David Thomson, il biografo di Welles, che nel 1997 in Rosebud: The Story of Orson Welles, a proposito dell’idea di mettere mano al film incompiuto scriveva: «Ci sono creazioni, opere e prodigi che sono più significative nella loro non-esistenza, nella loro scomparsa e nella loro ombra».
Pedro Armocida, il Giornale