Al Festival di Taormina il regista finlandese Dome Karukoski racconta la tormentata vita dello scrittore, interpretato da Nicholas Caradoc Hoult. Un film non autorizzato dagli eredi: “Sono curioso che lo vedano. Di certo non ho fatto un ritratto solo positivo del personaggio”.
Trovare le terre di mezzo dietro gli occhi blu di un giovane orfano. È di Nicholas Caradoc Hoult il volto di John Ronald Reuel Tolkien, lo scrittore che ha consegnato al mondo – 150 milioni di libri venduti – e al cinema la saga di Il Signore degli anelli e Lo Hobbit. Girato dal regista finlandese Dome Karukoski, fine e devoto conoscitore dell’opera letteraria del professore di Oxford, Tolkien – il film in sala da noi il 26 settembre – si concentra sull’infanzia e la gioventù dell’autore, l’amicizia con un gruppo di coetanei sincera e profonda, un’unione che verrà sublimata ne La Compagnia dell’anello e un mondo immaginario, profondo e originale, la passione per i miti nordici. L’incontro con la compagna Edith, interpretata da Lily Collins e l’esperienza devastante della Prima guerra mondiale, la perdita degli amici e le cicatrici dell’anima che alimenteranno le visioni malefiche che popolano il suo mondo letterario.
Il regista ha portato il film al Festival di Taormina e raccontato che si tratta di un progetto che lo ha molto coinvolto dal punto di vista personale. “C’è una connessione forte per due motivi – spiega il cineasta finlandese, accompagnato dal figlio di cinque anni – A dodici anni ho iniziato a leggere i libri di Tolkien, partendo da Il Signore degli anelli e arrivando a The Hobbit e Silmarillion. Poi, crescendo, mi sono reso conto che c’erano tanti tratti biografici in comune tra me e il mio autore preferito. E tanti sentimenti condivisi. Io ero un adolescente povero, che si era sempre sentito un outsider. Ero cresciuto senza padre, mi sentivo solo. Sentivo un vuoto che cercavo di colmare trovando amici. Questo era importante per me: trovare una comunità che mi accogliesse. Sono stato bullizzato, ho sofferto molto e trovavo fuga nei libri, che Tolkien aveva creato con la sua immaginazione per sfuggire ai dolori della vita, lui orfano che aveva trovato la compagnia dell’anima e aveva perso tutti gli amici nella Grande guerra, conflitto che lo aveva segnato dolosamente e per sempre”.
L’idea non era l’ennesimo biopic su Tolkien: “Quando i produttori mi hanno inviato la sceneggiatura stavo finendo un altro film, Tom of Finland, che è stato scelto per rappresentare la Finlandia agli Oscar. Essendo grande fan di Tolkien ho deciso di fare anche questo film, anche perché secondo me nessuno dei due lavori, pur partendo da storie vere, sono biopic. Tom of Finland era un film sulla libertà, Tolkien un racconto di formazione e di crescita. Infatti non racconto lo scrittore ma la maturazione del giovane che diventerà poi lo scrittore. Se c’è una cosa che credo di aver imparato negli anni è quella di raccontare storie e approfondire i personaggi”.
Sulla responsabilità nel raccontare storie vere, il regista è convinto che “il primo obbligo è offrire al pubblico la migliore storia possibile. Lo stesso Tolkien, da questo punto di vista, non era un fan delle biografie. La sua più grande paura, e anche la mia, era realizzare una storia noiosa. Bisognava costruirne una vera, viva, piena di energia anche se rispettosa verso chi l’ha vissuta davvero. Abbiamo drammatizzato e cambiato alcune cose ma credo di essere stato totalmente fedele alla persona e dunque onesto. Credo di aver raccontato Tolkien nella sua verità”. E poi, prosegue il regista, “spero di essere riuscito a fare un film che piaccia anche a chi non sappia niente di Tolkien e non sia un fan dei suoi libri. Mi piace l’idea che qualcuno si sia andato a leggere i libri dopo aver visto il film”.
Gli eredi di Tolkien non hanno gradito il lavoro e non hanno dato la loro approvazione. “Non hanno letto la sceneggiatura. Li ho invitati a vedere il film per mail ma sono una grande fondazione concentrata sui diritti della sua opera. Sono curioso di sapere cosa pensano. Di certo io rivendico di non aver fatto un ritratto solo positivo del personaggio, come si usa spesso nei biopic americani”. C’è stato anche un lavoro importante fatto sul linguaggio tolkeniano: “Sono cresciuto senza padre, che ho conosciuto solo molto tardi nella vita, insegnava a Yale. Una delle discussioni più grandi con lui era proprio quella sul linguaggio. Io a quattro anni già parlavo tre lingue: so cosa significa amare le lingue, il suono, impararne una nuova. Abbiamo ingaggiato molti esperti tolkeniani e uno di loro è lo stesso professore con la stessa cattedra che aveva Tolkien a Oxford. Il linguaggio di Tolkien è come uno spartito musicale, così ho cercato di tradurlo nel film”.
Interrogato sul fatto che l’universo di Tokien è stato fatto proprio da una parte della destra italiana il regista spiega: “Ognuno da quei libri prende ciò che vuole. I cattolici ci vedono molta religione. Di sicuro questo c’è ne Il Signore degli anelli, molto meno ne Lo Hobbit. Tolkien stesso non voleva che i suoi testi fossero visti troppo come allegorie. Ognuno vuole portarlo dalla propria parte, quel suo mondo immaginato, è successo anche con me. Certo in Lo Hobbit parla di tre razze diverse, una marrone, ma certo non era razzista nel modo più assoluto”.
Il mondo immaginato da Tolkien nel film viene solo suggerito: “Ho pensato che fosse una via di fuga alla realtà difficile, come è successo con me. La parte fantastica è solo suggerita, sono andato a cercare i momenti e i dolori che nell’infanzia e più tardi l’hanno influenzata. Il centro della mia storia però non è la creazione in se stessa ma l’amicizia. Tolkien aveva quattro amici cari, la sua Compagnia dell’anello, sono andati in guerra e solo lui è sopravvissuto. Erano gli Hobbit? Non lo so ma di certo le battaglie e la distruzione vissute in prima persona durante la Prima guerra mondiale lo hanno segnato profondamente. Quel filo rosso che esiste nell’opera di ogni scrittore per Tolkien è l’amicizia. Con i produttori abbiamo anche ripensato al fatto che da troppo tempo, forse da L’attimo fuggente, non c’era una storia d’amicizia che non puntasse sulla mascolinità. È stato bello raccontarla”.
Arianna Finos, La Repubblica.