Franca Leosini: “Storie Maledette è di tutti, la mia foto finita tra le verdure dal fruttivendolo”

Franca Leosini: “Storie Maledette è di tutti, la mia foto finita tra le verdure dal fruttivendolo”

Alla vigilia del ritorno di Storie Maledette, dal 7 giugno su Rai3 con una puntata sul caso Dina Dore, Franca Leosini si racconta in una lunga intervista a Fanpage.it. Il rapporto con i protagonisti dei suoi colloqui, la mitizzazione del suo personaggio, la cronaca nera in Tv. E la risposta alla famiglia Vannini dopo le polemiche per l’intervista a Ciontoli: “Capisco il loro dolore e nutro solidarietà, ho fatto solo il mio lavoro”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Franca-Leosini.jpg

“Dammi del tu, altrimenti ti chiamo duca”, dice Franca Leosini all’inizio della telefonata. Con un bagaglio di 18 stagioni, quasi 90 puntate e più di 25 anni di vita, Storie Maledette si appresta a tornare in onda su Rai3 da domenica 7 giugno con due nuove puntate. È una delle ricorrenze televisive più attese, senza distinzioni di ceto, rango ed età.

Franca, il successo è una cosa che ti interessa?

Rifuggo dal termine successo, per me contano i risultati. Indubbiamente lavoro molto per ottenere riscontro, indipendentemente da come questo riscontro possa essere definito. Il successo lasciamolo allo spettacolo. 

Da anni è in atto una “cultizzazione” di programmi che trattano cronaca nera, il tuo in testa a tutti. Come ti rapporti all’idea che spesso possa esserci più attenzione per la domanda che poni e non per la risposta?

È un’affermazione di massima gratificazione per me. Il colloquio è un percorso che scorre attraverso una narrazione umana, giudiziaria, culturale. Probabilmente il riscontro è dovuto al tipo di impostazione che io do al programma, per i testi che scrivo. 

Quella che tu crei è una vera e propria sceneggiatura.

Lo è a tutti gli effetti e a quanto pare si tratta di una sceneggiatura che tocca vari segmenti di pubblico. Una delle cose che mi gratifica di più è che Storie Maledette sia molto seguito dai giovani, si fanno chiamare Leosiners. Quello che a me interessa, al di là dello share che è importante e che preme molto di più all’azienda e a Rai3, è proprio questo seguito composito della trasmissione. 

Eppure qualche giorno fa Maurizio Costanzo ha detto “chi dice di fare una Tv per giovani o è un mentecatto o un mentitore”. Mi pare tu abbia un punto di vista completamente diverso. 

Maurizio Costanzo è un guru della televisione e tutto ciò che dice è rispettabile. Però io parlo per me e tendo a pensare che generalizzare sia sempre un crimine: ci sono programmi che vengono trascurati dai giovani e prodotti che vengono seguiti dai giovani. Non solo attraverso la Tv, ma tramite le molteplici modalità attraverso le quali i giovani accedono ai contenuti televisivi. 

Oggetto di venerazione è il tuo vocabolario. Vuol dire che in fondo le persone sono interessate al linguaggio?

Questa è una cosa che magari prima veniva vista più come strumento di evasione e il fatto che il mio programma venga seguito anche per il lessico ha un’importanza particolare per me che ritengo la parola un aspetto fondamentale del mio lavoro. Le parole restano, colpiscono, segnano. 

Parliamo di rapporto tra alto e basso. Il pubblico che ti segue credi sia più colto della media?

Pare sia seguita molto dai livelli alti, in senso culturale e sociale, ma devo dire che uno dei momenti di maggiore gioia per me è stato una volta, quando sono entrata dal verdumaio – lo chiamo così nonostante l’eterno duello lessicale con verduraio – e ci ho trovato una mia foto tra peperoni e melanzane. 

Sei diventata un santino. 

Mi ha dato grande soddisfazione. Sapere che un certo tipo di linguaggio non superficiale arrivi a tutti gratifica molto. Se resta anche un solo termine di quello che dico, avviene un baratto equo: io acquisisco un pomodoro, lui un aggettivo. 

La nuova stagione si aprirà con una trattazione completa sulla vicenda dell’assassinio di Dina Dore. 

Non la conosceva quasi nessuno ed è anomalo, trattandosi di una storia di estrema drammaticità. È passata inspiegabilmente sotto silenzio.

Che è strano, se si pensa all’attenzione spasmodica dedicata ad altre vicende. 

Questo dimostra come la cronaca sia molto capricciosa, bizzarra. La televisione certe volte si accanisce su determinati casi, trascurandone altri, inspiegabilmente ritenuti di minore interesse.

Tratti casi complessi e dolorosi, che molto spesso toccano per necessità persone vicine alle vittime o ai protagonisti delle tue storie. Ti influenzano le loro possibili reazioni?

Prevedo le reazioni e non mi influenzano. Le scelte che faccio partono da un senso etico profondo, tratto la materia di cui mi occupo con grande rispetto. Accetto ogni critica e valutazione, ma la cosa non deve condizionarmi. Quando una vicenda entra nelle carte della cronaca, purtroppo non si possiede più. Noi abbiamo il diritto e il dovere di percorrerla con massima serietà e rispetto professionale. 

Dopo l’intervista ad Antonio Ciontoli la madre di Marco Vannini rispose con una lettera pubblica molto risentita. Che effetto ti ha fatto?

Ho intervistato Antonio Ciontoli, una persona che si è resa responsabile di una tragedia di cui sta pagando e pagherà le conseguenze. Ho fatto il mio lavoro, come sempre senza assolvere o accusare, compito che spetta ai magistrati. Il mio di compito è provare a capire. La reazione dissenziente della famiglia di Marco Vannini la capisco perfettamente, tutto ciò che riguarda la persona, l’habitat e il mondo che circonda Ciontoli provoca in loro un profondo dolore. Non li conosco personalmente ma nutro per loro un affetto e una solidarietà che non si può negare a chi ha subito una perdita di questo tipo. Un dolore insuperabile. 

Molto spesso i programmi di cronaca tendono a generare spaccature nette nel pubblico, innocentisti e colpevolisti dal divano di casa. Questo germe ha contaminato la narrazione della cronaca nera negli ultimi anni?

C’è stata una spinta forte a rendere la materia giudiziaria e i casi delittuosi di crimine materia anche di spettacolo. La televisione si è indubbiamente impadronita del tema, fin troppo.

Un tema, quello della cronaca nera, che nella televisione italiana hai di fatto sdoganato tu. 

Storie Maledette è stato antesignano del genere, io credo di aver portato il noir in televisione. Iniziai come autore di Telefono Giallo, condotto da Corrado Augias, ma mentre costruivo quel programma mi rendevo conto che mi interessava molto l’intelligenza dell’indagine, capii anche che mi affascinava chi di quella tragedia si fosse reso responsabile. Dopo è arrivato Chi l’ha visto?, che inizialmente si occupava di scomparsi e poi è sconfinato nei delitti. Poi nelle altre emittenti sono nate altre trasmissione che percorrono il giallo settimanalmente. 

Ti sei detta convinta che attraverso il racconto dei casi di sangue sia possibile raccontare la società che viviamo. Esiste un caso che è cartina tornasole dell’Italia contemporanea?

Non potrei dire che c’è un solo caso. Ogni storia che racconto è rappresentativa di un segmento della società. Anche in questa nuova serie ogni storia è rappresentativa di un contesto. Francesco Rocca, che uccide la moglie Dina Dore, è un dentista, la vicenda si svolge a Gavoi, nel cuore della Sardegna. Tutti questi elementi specifici si intersecano con gli elementi passionali che stanno sempre alla base dei delitti. Una cosa che posso dire con certezza è che alla radice dei crimini c’è sempre la passione. Non per forza amorosa, ma passione nel suo senso profondo, intesa come sofferenza. 

Dopo un lavoro di ricerca profondissimo Truman Capote scrisse nel 1966 il suo capolavoro A Sangue Freddo, un libro che nasceva dalla frequentazione assidua con gli artefici di un sanguinoso delitto. Dopo non è riuscito più a scrivere, segnato profondamente dalla vicenda. In seguito a uno dei tuoi colloqui hai mai pensato “basta, stavolta è troppo”?

Rispondo con fermezza: assolutamente no. Le storie le vivo con grande partecipazione umana, ma anche con la dovuta professionalità. Io vivo le storie, le attraverso, mi turbano e continuano ad accompagnarmi, però non mi sono mai lasciata condizionare. 

Ti sei mai sentita in difficoltà nel fare una domanda? 

Le domande che faccio sono tutte scomode, ma no. Quando affronto una storia la affronto sempre con la consapevolezza di conoscere ogni risvolto della vicenda, ambientazione e atmosfera compresa. Il chirurgo che opera deve mettersi davanti al tavolo operatorio con la capacità di padroneggiare la situazione. Deve partecipare, ma non lasciarsi travolgere. Se io mi lasciassi travolgere finirei per parteggiare. 

Credi che il pubblico capisca da che parte stai quando fai le tue interviste?

Una cosa per cui mi adopero sempre è che non si intuisca che cosa penso. Non è che io non mi formi un’opinione, che spesso prescinde dagli atti. Però tengo molto all’idea di non lasciar trapelare cosa pensi di quella storia. 

Elemento scenico e non solo dei tuoi programmi sono i famosi libroni che tieni aperti davanti a te. Che fine fanno?

Li tengo tutti conservati, c’è un armadio in Rai che contiene 20 anni di programma. 

Hai mai pensato di pubblicarli?

Me lo hanno proposto molte case editrici, ma credo che si scrivano fin troppi libri. 

Ho letto che stai pensando a un nuovo programma. Sarà molto diverso da Storie Maledette?

È un altro tipo di programma, altrimenti sarebbe una fotocopia.

È una mezza notizia, si desume che potrebbe non basarsi su fatti di cronaca nera.

Il vissuto è sempre quello che mi interessa, perché tutto è cronaca nella vita, anche se andiamo al bar e scivoliamo sul marciapiede.

Sei diventata un’icona. Hai mai percepito che il personaggio televisivo Franca Leosini sorpassasse la persona che sei nella vita?

Io sono quella che si vede, riporto me stessa in video, Franca Leosini è quella, non mi metto in scena. Porto la mia identità nel mio lavoro, con pregi e difetti.

Anche se non sarebbe un peccato, interpretare qualcuno non significherebbe un falso. 

È chiaro che ognuno di noi ha varie sfumature di sé, che emergono a seconda del contesto in cui ci adoperiamo. La Franca Leosini che cucina non può essere la stessa che va in televisione. Significa mettere al servizio di un prodotto un talento, una naturale predisposizione all’esperienza. 

Potrà apparire una domanda banale: perché il tuo programma si chiama Storie Maledette?

Io entro nella vita delle persone, cerco di capire il vissuto, l’ambiente in cui si sono formati, cosa abbia modificato la loro realtà umana facendoli passare da una normale quotidianità all’orrore di un gesto che non somiglia a quella persona. Nessuno tra i miei interlocutori è un professionista del crimine, si chiama Storie Maledette perché all’improvviso qualcuno cade in una maledetta storia.

Andrea Parrella, Fanpage.it

Torna in alto