A 25 anni dal primo gay pride, l’8 giugno a Roma sfileranno centinaia di migliaia di persone per i diritti della comunità Lgbtq. Massimo Marra del direttivo del circolo Mario Mieli qui racconta quel pomeriggio torrido del 1994, e le lotte per i diritti ancora da affrontare
C’era solo un carro, il 2 luglio 1994, che sfilava per le vie di Roma, da piazza Santi apostoli fino a piazza Campo de’ Fiori. Un po’ di musica. Qualcuno aveva degli striscioni, la gente seguiva in corteo, delle ragazze ballavano. Il giorno dopo, del primo gay pride italiano, Repubblica scriveva: «Come nella grandi manifestazioni operaie degli anni ’70, anni di tensione e di dure battaglie sindacali, sono stati distribuiti fischietti e tamburelli. La rabbia mista alla gioia di poter uscire finalmente allo scoperto, di poter manifestare tranquillamente la propria tendenza sessuale, spinge uomini e donne, giovani e anche anziani a soffiare con forza in quei fischietti il proprio desiderio di libertà e di rispetto.
Ci sono tutti e c’ è un po’ di tutto. Timidi e estroversi, incazzati e gentili, separatisti e pluralisti. Destri e sinistri. Quelli che hanno votato Forza Italia e i fedelissimi dell’Arcigay e dei vari circoli culturali omosessuali. Moltissime anche le lesbiche che in alcuni momenti prevalgono persino sugli amici omosex. Ma c’ è soprattutto una felicità che sembra trasudare da ogni lato».
Era la prima volta del gay pride, in Italia, mentre erano già passati 25 anni dai «moti di Stonewall», quando polizia e comunità gay di New York iniziarono a scontrarsi dopo la rissa scoppiata in un bar gay del Greenwich Village, lo Stonewall Inn appunto, il 28 giugno 1969. Era nato il movimento per i diritti di gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, queer, ma l’America era ancora molto lontana dall’Italia. «Mi ricordo soprattutto del caldo, quel giorno», spiega Stefano Marra, impiegato, che allora era uno studente di 23 anni e oggi è un attivista nel direttivo del Circolo Mario Mieli di Roma. «Ero appena entrato nella vita adulta, stavo finendo l’università. Uscivo la sera con i miei amici, mi affacciavo alla vita gay della Capitale».
Aveva già fatto coming out, si sentiva libero di manifestare la sua sessualità all’epoca?
«Mi ero dichiarato con i miei amici e compagni di università. In famiglia non del tutto, perché una parte dei miei parenti sapevo non avrebbero reagito bene».
Che cosa significava essere gay nel 1994 a Roma?
«Rispetto alla provincia, avere la possibilità di incontrare tanta gente. Non c’erano i locali che ci sono oggi, c’era l’Alibi a Testaccio, c’era l’Hangar in via Cavour, non tantissimo ma qualcosa c’era. Quello era l’unico modo di incontrare persone come te: non c’era internet, non c’era Facebook, non c’erano le chat».
Si sentiva «ghettizzato»?
«In realtà no, uno dei punti di ritrovo era la scalinata della chiesa della Consolazione, un bellissimo posto in centro a Roma, davanti alla Rupe Tarpea. Nella bella stagione si faceva salotto sui gradini della chiesa: tutti sapevano chi fossimo, nessuno ci ha mai cacciato».
Quindi si sentiva sereno, in un clima non omofobo?
«Io non sono mai stato insultato o aggredito. Tuttavia era chiaro che la situazione era quella del tacito don’t ask, don’t tell, tu non me lo chiedi, io non te lo dico. Si sapeva, ma si faceva finta di niente. Se si pensa che le prime serate del Muccassassina sono state fatte a due passi da via della Conciliazione, a 300 metri da San Pietro, senza per altro destare troppo scandalo, la dice lunga sull’ipocrisia dell’epoca».
Aveva mai partecipato a un gay pride all’estero?
«Mai, e quando nel 1994 iniziò a diffondersi la voce che ci sarebbe stato un corteo simile a Roma, non avevamo idea di che cosa si trattasse».
Qual era la differenza tra sfilare a un gay pride e non farlo?
«Avere la visibilità totale. Partire da una piazza centrale di Roma, farsi vedere attraversando tutto il centro, da cittadini, turisti, nei luoghi simbolici della città: nel 1994 sfilare significava dire prima di tutto “ci sono, sono qui” e mi mostro, occupo uno spazio. Era la rottura dell’ipocrisia, del far finta di non vedere».
Come si è sentito quel giorno?
«Io e i tre amici eravamo titubanti, avevamo paura che qualcuno avrebbe protestato. Ma avevamo 23 anni e quindi ci siamo buttati in questo torrido pomeriggio d’estate, all’inizio c’erano poche persone, poi il gruppo è diventato sempre più folto: per la prima volta ho capito che eravano tanti. Saremmo stati 10 mila persone, numeri non paragonabili a quelli di oggi, quando al gay pride arrivano anche in 400 mila, ma per l’epoca un risultato enorme. È stata una scarica di adrenalina. Avevamo degli striscioni che dicevano “con chi mi pare, quando mi pare”, “fermate l’odio, curate l’aids”».
Nel 1991 moriva Freddy Mercury, si era in pieno allarme Aids.
«Agli inizi degli anni Novanti la comunità gay viene flagellata in maniera crudele dall’Hiv, quindi c’era uno stigma totale sull’omosessualità. Quel corteo ha lanciato un messaggio anche su questo, ossia separare l’orientamento sessuale da un marchio negativo».
Si è innamorato quel giorno?
«No, a me non è capitato sfilando».
Che cosa pensa delle critiche al gay pride come «baraccone», messa in scena di volgarità?
«Che è il nostro miglior ufficio stampa. Il pride non è sobrio, è una bellissima baracconata, carnevalata, manifestazione eccessiva, è nato dalla notte allo Stonewall Inn, in una notte di sfogo in cui gli ultimi, le drag queen, i travestiti, le lavoratrici del sesso hanno deciso di ribellarsi. Non è stato il maschio bianco in giacca e cravatta, ma quelli che nessuno voleva vedere, i freak, che erano considerati pericolosi, non in linea con la morale pubblica».
Che senso ha andarci oggi, è ancora importante?
«Assolutamente sì. Il pride ha una doppia valenza: un valore commemorativo, e quindi ricordare tutte le battaglie che abbiamo fatto negli ultimi 50 anni, ma anche un valore rivendicativo. Le unioni civili sono solo l’inizio e un piccolo successo dopo settant’anni in cui la Repubblica italiana non ha riconosciuto alcun diritto alle persone omosessuali».
Quali diritti sono i più pressanti ora?
«Quelli per il matrimonio egualitario, per l’adozione dei figli».
Lei ha usufruito di un’unione civile, vorrebbe dei figli?
«Per quanto mi riguarda non sono unito civilmente e non ho un desiderio di paternità. Ma ho visto amici che stavano insieme da più di 25 anni che hanno potuto coronare un sogno. I ragazzi che vengono al circolo oggi, e che hanno 23 anni, sono molto diversi da come ero io alla loro età. Sanno che possono avere questa possibilità, hanno più speranza».
Se ci fosse il matrimonio egualitario si sposerebbe?
«Sì. Mi piacerebbe avere un vero diritto, come succede alle coppie etero, ossia la facoltà di decidere se farlo o non farlo».
La posizione della Lega, primo partito in Italia, è netta sulle famiglie arcobaleno: il ministro Fontana ha detto che non esistono. Come sarà il gay pride del 2019?
«Il pride dell’anno scorso era dedicato alla visibilità delle famiglie omogenitoriali e sul tema della resistenza: una volta che ti danno i diritti bisogna sempre vigilare perché non te li tolgano. Quest’anno insistiamo, vista l’aria che tira. Lo slogan di quest’anno è: nostra la storia, nostre le lotte. Vogliamo assolutamente ricordare quanto abbiamo fatto e quanto dobbiamo ancora fare».
Silvia Bombino, Vanity Fair