Aperture straordinarie permettono l’accesso ai visitatori nella fortezza risalente al 1500
Fortemente danneggiato dal terremoto del 2009, e di nuovo dalla sequenza sismica del Centro Italia del 2016, il Castello Cinquecentesco dell’Aquila è ancora cantiere. Il difficile restauro, complicato dal ribaltamento dei pilastri del loggiato al piano terra, è parte delle grandi opere pubbliche che faticano a completarsi. Pesano l’entità del danno e le scelte progettuali di ancorare al futuro una costruzione del passato. IpaIl Castello Cinquecentesco di L’Aquila (2002)
Il dato “4.416,88 tonnellate di macerie rimosse dal Forte Spagnolo” rende l’idea del lavoro fatto. Così nell’attesa del completamento dei lavori del primo lotto (ce ne sono tre), promesso a breve, il cantiere si ferma nei weekend e nei giorni rossi del calendario per restituire il piacere di incontrare il gigante dell’Aquila: il Mammut.
Il volto largo e scavato si impone e per un attimo ammutolisce, la lunga zanna avverte e preannuncia l’imponente stazza. Alto quattro metri e lungo sette, i sostegni forgiati lungo le ossa mantengono lo scheletro composto. Trascorsi un milione e trecento mila anni, il Mammut della città dell’Aquila, protetto dalle spesse mura del Castello Cinquecentesco, è ancora qui: maestoso e spavaldo, tra i più completi esemplari del Pleistocene.
A dare un’immagine di come fosse in carne ci ha pensato il celebre Benoit Clarys, famoso per illustrare trascorsi lontani: mammifero in quell’Abruzzo lacustre d’un tempo capace di offrire un clima africano. E se l’arte aiuta a fare un tuffo nel passato e il cinema proietta un viaggio animato, il museo custodisce, espone e restaura. Correva il 1954 quando il Mammuthus meridionalis fu rinvenuto casualmente durante uno scavo in una cava d’argilla nel Comune di Scoppito, in un piccolo paese a pochi chilometri dalla città capoluogo.
Perforando un misto di argilla e sabbia in cerca dell’acqua il terreno restituì quello che oggi si potrebbe definire un odierno elefante dalle zanne ricurve. Una scoperta unica avvenuta, a meno di un metro, tra mistero, incredulità e sospetto. Nonostante lo stato precario delle ossa, a spiegare la lunga conservazione, dell’esemplare ritrovato quasi completo, è il basso contenuto di ossigeno presente nell’argilla.
Morto a 55 anni sulla sponda di uno specchio d’acqua, 11.550 chilogrammi di peso, maschio, della specie con poco pelo, amante della frutta e delle foglie, sono le 149 ossa a rivelare ai paleontologi i segreti del Mammut dell’Aquila. L’identikit parte dai denti molari, indicatori degli anni, dal bacino e dalle vertebre, che ne svelano il sesso ma anche l’altezza e la massa corporea.
La curiosità più evidente del Mammut è anche la sua caratteristica: la presenza di una sola zanna. Un marchio distintivo, che in vita gli avrebbe creato persino una sorta di scoliosi. Dal peso di 100 chilogrammi l’unica difesa – originale – del Mammut è conservata ai suoi piedi (attaccata allo scheletro c’è una copia identica più leggera), mentre l’altra (non rinvenuta durante gli scavi) si sarebbe malamente spezzata creando una frattura soggetta a infezione. Una “ferita” scaturita da un combattimento, è l’ipotesi più accreditata.
A lungo lo scheletro è stato oggetto di studi e di meticolosi interventi. Sono affascinanti le fasi di restauro avvenute in diverse epoche e per motivi differenti. Negli anni che vanno dalla scoperta al 1960 la decisione di agire sullo scheletro è stata presa per bloccare il deterioramento delle ossa: giudicate “troppo fragili”. Scelta che portò a decisioni drastiche. Per alleggerire lo scheletro, durante il trasporto del Mammut presso l’istituto di Geologia dell’Università di Roma, si optò per recidere la zanna (ripristinata a fine lavori).
Le ossa, accuratamente riposte in otto casse, subirono un primo consolidamento accompagnato, durante la fase espositiva, dall’armatura di tubi di ferro a sostegno. Il secondo restauro avvenne alla fine degli anni Ottanta (1987-1991) deciso per salvaguardare lo sgretolamento all’interno delle ossa.
Il terzo e ultimo intervento è avvenuto dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, per via delle lesioni che hanno interessato parte dello scheletro del Mammut. Finanziato dalla Guardia di Finanza, i lavori di restauro hanno consentito, tra il 2013 e il 2015, di rafforzare ulteriormente le ossa originali e di rimodellare con maggiore efficacia le integrazioni avvenute nei precedenti restauri.
Il consolidamento strutturale del Castello, un tempo residenza del governatore spagnolo, alloggio dei soldati francesi nell’Ottocento e prigione gestita dai militari tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato un passo decisivo per restituire alla città e al mondo lo straordinario Mammut aquilano.
Nell’attesa che torni definitivamente alla collettività: il Forte, monumento nazionale, immerso in un grande parco verde con all’interno l’Auditorium Renzo Piano, riaccende la luce del bastione est. Quella luce che illumina il bestione, rimasto al buio troppo a lungo, tornato maestoso e spavaldo grazie allo sforzo collettivo e alla tenacia di chi se ne prende cura.
Presentato come una star, il Mammut è un guerriero senza tempo uno dei simboli dell’Aquila. La sua presenza è un collegamento remoto difficile da immaginare, una finestra temporale ciclopica rispetto alla parentesi della vita umana.