Sundance 2022, il racconto del Festival

Sundance 2022, il racconto del Festival

Tra premiati e nuove tendenze, il reportage di Federico Buffa e Mauro Bevacqua di  questa paricolare edizione della kermesse fondata da Rober Redford che anche quest’anno non è potuta svolgersi dal vivo ma solo in streaming a causa dell’emergenza sanitaria 

Dopo la reclusione forzata dalla pandemia del 2021 il Sundance Film Festival edizione 2022 voleva essere quello del ritorno alla normalità. Con titoli provenienti da 147 nazioni e una rosa di 14.849 aspiranti “Sundancer”, uno dei festival cinematografici più importanti al mondo si era illuso di poter riaprire le proprie porte – quelle delle iconiche sale di Park City, nello Utah – in “the old fashioned way” come direbbe il suo fondatore Robert Redford. Omicron purtroppo, a pochi giorni dall’inaugurazione, ha sparigliato tutti i piani, ricacciando improvvisamente l’edizione 2022 alla sola modalità streaming: nonostante tutto ciò – e sulla scia del grande successo già ottenuto l’anno scorso – è stato comunque un trionfo, seppur ancora una volta dal sapore agrodolce.

Fiore all’occhiello, come sempre, una sezione documentaristica che dalle 1.730 proposte pervenute ha selezionato la rosa finale di 36 titoli “eletti”, per una programmazione che, per qualità e ampiezza di visione, resta ancora inarrivabile per qualsiasi altro festival. Da sottolineare anche le 76 premiere mondiali sugli 84 lungometraggi proposti, la solita miscela di sguardi innovativi sul mondo e sul suo futuro (grazie ai 39 registi esordienti) oltre alle usuali sezioni “alternative”, capaci di raccontare storie affascinanti, uniche e potenti.

GLOBAL WINNERS

L’apertura sempre più internazionale di un festival per coscienza e obiettivi orientato già naturalmente a offrire il proprio palcoscenico a voci lontane dal mainstream si è riflessa soprattutto nei vincitori. Persino “Nanny”, il premio della giura per la categoria US Dramatic, ha mostrato con orgoglio elementi soprannaturali e folklore senegalese in una storia ambientata in un lussuoso appartamento di Manhattan, dove una giovane africana appena assunta come babysitter attende con ansia l’arrivo del figlio dal Senegal (spoiler: non finirà bene). Una trama che, smentendo forse le premesse, stupisce a più livelli e si allinea al sorprendente “All That Breathes” per la stratificazione del messaggio: la pellicola indiana, premiata come miglior documentario nella sezione World Cinema, segue un improbabile trio di soccorritori di rapaci nella degradata periferia di New Delhi, tra riflessioni su identità e religione mentre la discriminazione verso i musulmani raggiunge nuovi feroci, apici.

Anima “internazionale” anche per gli altri premi più importanti, con i Grand Jury Prize assegnati a “The Exiles” per la categoria documentari USA (la storia di tre attivisti cinesi finiti in esilio forzato dopo le proteste di Piazza Tienanmen dell’89, filmati peraltro dalla vulcanica Christine Choy che – proprio nel 1989 – era stata premiata al Sundance per “Who killed Vincent Chin?”) e a “Utama” per la sezione World Cinema Dramatic. Qui la storia che mette al centro della narrazione un’anziana coppia boliviana in lotta tanto con la siccità quanto col dilemma di un inevitabile trasferimento in città per sopravvivere, si lega idealmente ai temi presenti anche in “The Territory”, premio del pubblico per la sezione World Documentary, una denuncia dei soprusi sulle popolazioni indigene in atto in Brasile, che mette alla gogna il governo Bolsonaro (chiamato peraltro alla sbarra anche da un altro Sundancer di quest’anno, il dramma familiare “Mars One”).

PERIFERIE (DEL MONDO) IN CRISI

Uno dei valori aggiunti di quest’edizione del Sundance è stata la sbalorditiva testimonianza di alcuni film capaci di far riflettere in tempo quasi reale su alcuni tra gli eventi più angoscianti in corso nel globo. “Klondike” – un dramma ucraino su una donna incinta e sul marito, ultimi superstiti di un villaggio ormai distrutto dalla violenza russa – ha raccontato dell’occupazione della regione del Donbass proprio nei giorni in cui la NATO discuteva sul da farsi contro Putin; “Navalny” (inserito in corsa nella lineup, a festival già iniziato) ha contestato lo stesso “onnipotente” leader russo attraverso l’incredibile storia del suo più pericoloso nemico nel documentario US meritatamente premiato dal pubblico, mentre “House Made of Splinters” dell’Ucraina in crisi ha infine scelto di descrivere un altro volto, quello doloroso e disperato degli orfanotrofi.

Non poteva mancare in questo contesto il fronte birmano con “Midwives”, proiettato a un anno esatto dal colpo di stato della giunta militare, che va a raccontare i conflitti interni tra buddhisti e musulmani nella regione del Rakhine attraverso gli occhi di un’ostetrica e della sua giovane assistente, unite dalla professione ma divise dall’identità religiosa, così come “Tantura” ha riesumato – seguendo la tesi del 1998 di un ebreo di Haifa ostracizzato dalla sua comunità – il conflitto mai risolto tra Israele e Palestina risalente al 1948, e a quella che i primi chiamano Guerra d’Indipendenza e i secondi definiscono “al Nakba” (la catastrofe).

BLACK LIVES MATTER 2.0

Un altro tipo di denuncia che al festival creato da Robert Redford ha sempre storicamente trovato nuova linfa per rigenerarsi è quella identificata oggi con il movimento “Black Lives Matter”, per il sostegno ai diritti civili degli afroamericani. Il più impressionante dei film proposti a riguardo è stato sicuramente “Descendant”, un reportage sui discendenti della nave schiavista Clotilda – l’ultima di questo genere approdata sulle coste statunitensi – e su “Africatown”, il loro villaggio, ancora oggi vittima beffarda degli eredi dei proprietari di quel battello, simbolo controverso di una storia soffocata da più di un secolo. Una tematica, quella del razzismo verso i “blacks”, che ha trovato spazio in molte opere di questa edizione: “Riotsville” e “Emergency”, calandosi in un’attualità più cavalcata dai media, sono stati forse gli esempi migliori, rimarcando ancora una volta l’evidente assenza di una convivenza umana, prima ancora che pacifica, tra le forze dell’ordine e le minoranze, nel 2022 così come nei Sixties.

MINORANZE, LOTTE E DIRITTI

Non solo la minoranza nera – privilegiata dalla forte presenza di registi afroamericani supportati dal Sundance – ha trovato splendida rappresentanza all’interno del festival. Altri lungometraggi altrettanto spiazzanti e stimolanti, e che come i primi affondano le proprie radici narrative nelle lotte degli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti, hanno narrato le difficoltà d’integrazione sia delle donne che delle comunità asiatiche e LGBTQ. Tra questi si segnalano la clamorosa storia del primo sudcoreano condannato ingiustamente a morte negli USA (“Free Chol Sol Lee”), le vicende – meravigliosamente rivoluzionarie – di un gruppo di donne di Chicago a capo di alcune cliniche clandestine per l’aborto prima della legge del 1973 (“The Janes”) e una ricostruzione-shock dei dialoghi privati dei primi pazienti transgender protagonisti dei pioneristici studi sull’identità di genere sviluppati all’università di UCLA (“Framing Agnes”),  interpretati da alcune tra le più note icone trans odierne.

DOUBLE DAKOTA

È nella tradizione del festival, infine, legare il proprio nome a registi e attori feticci, qui scoperti, lanciati o consacrati. Esattamente a 25 anni di distanza – era l’edizione del 1997 – da quando Parker Posey portava al Sundance due titoli diventati subito di culto (“The House of Yes” e “Clockwatchers”), imponendosi come autentica reginetta “indie” del cinema USA, la sua eredità è stata raccolta quest’anno dall’incantevole Dakota Johnson, anche lei protagonista di due pellicole. In “Am I OK?” – presentato nella sezione “Premieres” – la sua Lucy scopre tardivamente la propria omosessualità, mettendo così in crisi il lungo rapporto di amicizia con Jane (Sonoya Mizuno), mentre nel premiato “Cha Cha Real Smooth” (Audience Award nella categoria US Dramatic) finisce per essere l’oggetto del desiderio di due uomini tra loro agli antipodi, il suo promesso sposo e l’improvvisato babysitter della figlia autistica. Un’autentica consacrazione per un’attrice in rampa di lancio che vedremo presto diretta da Maggie Gyllenhaal nell’adattamento del romanzo di Elena Ferrante (“The Lost Daughter”) e che il pubblico del Sundance aveva già apprezzato lo scorso anno nel curioso esperimento firmato St. Vincent-Carrie Brownstein (“Nowhere Inn”).

MERCATO E DISTRIBUZIONI

Un nome, quello di Dakota Johnson, che evidentemente ha affascinato anche i grandi distributori: se “Am I OK?” è stato acquistato dalla Warner Bros. che ne curerà la distribuzione nelle sale, proprio “Cha Cha Real Smooth” – tra l’altro co-prodotto dall’attrice americana – si è portato a casa l’ideale palma di film più costoso del Sundance 2022, con AppleTv+ disposta a versare 15 milioni di dollari per assicurarselo. A ruota sono seguiti “After Yang” del talento coreano-americano Kogonada (acquistato dalla A24), “Good Luck to You, Leo Grande” (7.5 milioni di dollari versati dalla Searchlight Pictures) e la doppietta messa a segno da National Geographic (per il già citato “The Territory” e per lo spettacolare documentario “Fire of Love”, storia di una celebre coppia di vulcanisti francesci il cui amore reciproco era inferiore solo a quello per le spettacolari eruzioni che hanno finito per costar loro la vita).

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