Un anno fa l’assalto a Capitol Hill segnava il punto più basso nella parabola di Donald Trump e del suo clan. Che fine hanno fatto? Messi in ombra, coltivano sogni di rivincita. Nella speranza che il reality ricominci
un anno di distanza dall’assalto a Capitol Hill, la democrazia americana è ancora condannata a guardare al futuro sapendo che vedrà il passato. Donald Trump, l’incitatore-in-chief della più barbara azione di violenza verso le istituzioni della recente storia americana, sarà il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti nel 2024. Soltanto un grave problema di salute, un cataclisma peggiore di quello che stiamo già vivendo, un radicale cambio d’opinione del 78 per cento dei repubblicani che al momento lo sostiene o un’improbabile interdizione dai pubblici uffici per via giudiziaria potrebbero cambiare questa eventualità. Fatto un profondo respiro per interiorizzare la notizia, si può passare alla ricerca dell’elemento senza il quale The Donald non può dirsi veramente se stesso e dunque non può essere elettoralmente competitivo: il clan.
Trump è un essere tribale, vive di relazioni di sangue, di lealtà assoluta e pugnalate alle spalle, di drammi posticci e relazioni plastificate, il suo gran reality ha bisogno di un continuo turnover di personaggi per produrre le calcolate frizioni che servono per mandare avanti lo show. Il ciuffo arancione non si regge senza il collante di una dinastia. E se la grande dinastia kennediana non c’è – per evidente mancanza di risorse umane all’altezza – basta anche una corte ridanciana, qualche consigliere senza precedenti penali, quattro figuranti che annuiscono a comando.
Il 6 gennaio del 2021 è iniziato l’esodo della tribù di Trump: più che una grandiosa storia dal sapore biblico è stata una fuga a gambe levate da un presidente che ha mandato i suoi seguaci all’assalto del Congresso per difendere l’universo parallelo in cui Joe Biden ha rubato le elezioni e la famiglia Clinton gestisce un traffico pedopornografico dal seminterrato di una pizzeria di Washington. Dov’è finita, da allora, la corte di Trump?
Donald Jr, il figlio maggiore, quel maledetto 6 gennaio era sul palco di Washington. Ha fatto, come sempre, da gruppo spalla al papà, ha scaldato la folla gridando minacciosamente «veniamo a prendervi» ai repubblicani traditori che avrebbero certificato l’elezione di Biden. Poi, con il precipitare degli eventi, qualcosa è successo. Ha mandato un messaggio allarmato a Mark Meadows, il capo di gabinetto del presidente: «Deve condannare questa merda al più presto. Il tweet sulla polizia del Capitol non è abbastanza». Questo è uno dei messaggi letti durante un’udienza della commissione di inchiesta parlamentare sui fatti di un anno fa. Dimostrano che i pretoriani di Trump avevano capito chiaramente che cosa stava succedendo e hanno tentato, tardi e senza successo, di arginare il delirio presidenziale. L’ex presidente non deve aver preso bene il flagrante tradimento del caso psicodrammatico della famiglia, quello che tenta disperatamente di somigliare al padre per ottenere un’approvazione che gli viene ostinatamente negata, visto che Trump guarda il primogenito con lo stesso sguardo con cui guarda la Cnn. Questo spiega perché quel giorno il messaggio non l’ha mandato direttamente al padre, ma è certamente il fatto più importante della sua vicenda recente e uno dei pochi di cui ha evitato di scrivere sui social. Prima di questo, si era segnalato per essere andato a caccia con il navy seal che dice di avere sparato il colpo fatale a Osama Bin Laden, per un paio di libri autopubblicati – come un Danilo Toninelli qualunque – e comprati in stock dal Partito repubblicano per gonfiare le vendite e per la relazione con Kimberly Guilfoyle, celebrità televisiva e adepta del trumpismo che in passato è stata anche sposata con Gavin Newsom, governatore della California che si contende la palma di politico più odiato dal mondo repubblicano.
Per trovare pace dopo la rovinosa fine della presidenza, Don Jr. e Kim hanno venduto la villa negli Hamptons e ne hanno comprata una a Jupiter, in Florida, per poco meno di dieci milioni di dollari. L’investimento è modesto rispetto a quello di Ivanka e Jared Kushner, che per 24 milioni di dollari hanno comprato una tenuta iperprotetta sul mare su un isolotto di fronte a Miami Beach. Lei è sempre stata la preferita del padre, che qualche anno fa ripeteva sempre, credendo che fosse divertente, che se Ivanka non fosse stata sua figlia sarebbe andato volentieri a letto con lei. Ivanka e il marito sono stati i veri dominatori della Casa Bianca negli anni turbolenti dell’Amministrazione Trump. Lei era la consigliera strategica più ascoltata, lui aveva piena libertà di manovra su qualunque dossier, dalla legge di bilancio agli Accordi di Abramo. Dopo il finale tragico c’è stato il grande raffreddamento: i due non si sono più fatti vedere nella villa di Mar-a-Lago a Palm Springs, il quartier generale del patriarca, e sono scomparsi dai radar per mesi. Soffrendo acutamente per l’esclusione dalla vita sociale, la coppia ha deciso di farsi vedere a una sfilata di Louis Vuitton a Miami per commemorare lo stilista Virgil Abloh. Doveva essere l’evento di riammissione al mondo dei presentabili, invece il commento più carino apparso su Twitter è stato questo: «Questi collaborazionisti del fascismo dovrebbero sentirsi a disagio ovunque vanno». C’è poi un mistero sul ruolo di Ivanka nei fatti del 6 gennaio scorso. Il senatore Lindsey Graham ha raccontato che quel giorno, sapendo come tutti del suo ascendente sul padre, l’ha chiamata chiedendo di far desistere il padre e calmare la situazione. Non si sa se lei lo abbia fatto. Fra i messaggi letti al Congresso, di suoi non ce ne sono, ma la commissione vuole sapere se lei, quel giorno, era fra chi fino all’ultimo ha istigato la folla o almeno ha avuto la decenza di farsi venire qualche tardivo ripensamento.
Kushner in questi mesi è stato molto impegnato nella raccolta di profitti personali derivanti dalla sua semina politica. Sta raccogliendo fondi in Arabia Saudita e negli Emirati per la sua nuova impresa finanziaria, sfruttando le ottime relazioni con il principe Mohammad bin Salman (Mbs) costruite negli anni in cui aveva libertà d’azione in tutto il Medio Oriente. È stato Kushner a suggerire a Donald di non fare assolutamente nulla contro Mbs dopo che su suo ordine i servizi sauditi hanno ucciso e smembrato il giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso. Non ha ambizioni politiche per il futuro, dicono, anche perché il giornalista Michael Wolff ha raccontato che la power couple ha fatto un patto in stile House of Cards: se dovesse aprirsi la possibilità, un giorno, di correre per la presidenza, il posto spetta a Ivanka.
Eric Trump, il più dimesso fra i figli adulti di Trump e sospettato di avere avuto rapporti con la Russia per alterare il risultato elettorale, di recente ha preferito rappresentarsi come un idiota che come un sofisticato criminale: «Non eravamo abbastanza intelligenti per fare un accordo con la Russia. Non avevamo idea di quello che facevamo», ha detto in un’intervista con l’ex giocatore di football Jay Cutler, per poi tornare nel suo posto pressoché irrilevante nell’organigramma trumpiano.
Dopo avere avuto un ruolo secondario ma non inutile nelle campagne elettorali, la 28enne Tiffany (nata dalle nozze di Trump con Marla Maples) si limita ora a vivere la sua vita sui social, dove mostra foto delle vacanze in Grecia con l’amica Lindsay Lohan, che le ha presentato un miliardario nigeriano-americano di nome Michael Boulos, diventato il suo nuovo fidanzato. Su Instagram si amano tantissimo. Invece, del giovane Barron (unico figlio di Donald e Melania) si sa soltanto che non dice mai al padre «ti voglio bene». La cosa lo ferisce a tal punto che l’ha raccontata ai cronisti, finendo tra i molti aneddoti raccolti nell’ultimo libro di Jonathan Karl, storico corrispondente della Abc.
Dopo quattro anni passati in ostaggio in una prigione molto meno dorata della Trump Tower, anche Melania è tornata in superficie. Le voci sulla separazione, sul divorzio, sullo sfinimento e su tutto il resto sono sempre lì, ma intanto i due si sono fatti vedere insieme dopo mesi a una partita di baseball. Lei ha elargito la sua solita dose di occhiatacce disgustate verso il marito, subito trasformate in gif e meme. Ma soprattutto, Melania ha lanciato la sua nuova attività, gli NFT. Per una manciata di criptovalute si può comprare un acquerello che ritrae gli occhi dell’ex first lady e parte del ricavato va a un’associazione benefica che si occupa di affidi di bambini. La parte che esattamente andrà in beneficenza non è esattamente specificata, dettaglio perfettamente in linea con l’ethos opaco del trumpismo. Il resto del caravanserraglio trumpiano è perduto fra procedimenti giudiziari e dannazione della memoria.
Steve Bannon, un tempo presentato come il Rasputin del trumpismo, ha fatto la fine di tutti i demoni di mezza tacca. È stato arrestato per truffa (aveva rubato soldi a privati a cui aveva proposto di costruire il muro al confine con il Messico), poi rilasciato e nuovamente incriminato per essersi rifiutato di cooperare con l’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill, ed è stato lui stesso a consegnarsi all’FBI. Liberato senza cauzione, tuona contro le vaccinazioni di massa e promette che «distruggerà il sistema elettorale americano». Non solo è ancora convinto che Trump abbia vinto le elezioni, ma promette di far «decertificare» il risultato che ha portato Biden alla Casa Bianca, una specie di ulteriore colpo di Stato retroattivo per via giudiziaria. Una fine analoga ha fatto anche Roger Stone, leggendario consigliere di Nixon e sodale di Trump, condannato per aver ostruito le inchieste sui rapporti con la Russia e poi graziato dal presidente. Il 5 gennaio 2021 prometteva che sarebbe stato «spalla a spalla» con i manifestanti il giorno successivo, per evitare che l’America finisse «in un baratro di mille anni di oscurità».
Stephen Miller, il più longevo dei consiglieri trumpiani, quello che ha progettato il «muslim ban» e ha creato l’impianto retorico sul muro, va nei salotti di Fox News a dire che «se il presidente Trump fosse ancora in carica avremmo già i vaccini che proteggono dalle nuove varianti», una classica variazione sul tema dell’onnipotenza trumpiana.
Infine c’è Rudy Giuliani, l’avvocato di Trump che un anno fa aizzava la folla inferocita e qualche mese prima aveva regalato al mondo forse l’apoteosi del trash trumpiano, quella conferenza stampa in uno squallido sobborgo di Philadelphia (location ispirata da un clamoroso errore nella ricerca del più vicino hotel Four Seasons) nel mezzo della quale veniva annunciata la vittoria di Biden. Screditato e irriso perfino da Trump per la tinta dei capelli che gli colava sul viso durante un’altra conferenza stampa da brividi, l’ex sindaco di New York è il volto definitivo dell’impresentabilità trumpiana un anno dopo il disastro. Ospite d’onore straniero, è apparso in videoconferenza al Natale di Atreju concepito da Giorgia Meloni, kermesse che in teoria avrebbe dovuto presentare la nuova veste conservatrice di Fratelli d’Italia.
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