I Promessi sposi erano Carlo e Lucia; Omero scrisse l’Odisseade (la summa della sua poesia, Iliade e Odissea); il pentagono ha 9 lati mentre i magi erano 7… Del resto «non è che posso sapere tutto». Martedì su Italia 1 torna La Pupa e il Secchione e Viceversa, la novità dell’edizione è che non ci saranno solo pupe e secchioni ma anche, viceversa appunto, pupi e secchione. Il dilemma rimane sempre quello: il cervello o il corpo? La sostanza o l’apparenza? La biblioteca o palestra? Ora però la tv sente l’esigenza di camminare verso la parità: «L’incultura non ha genere — spiega Paolo Ruffini, il conduttore —, a maggior ragione oggi con l’esplosione dei social vediamo che ci sono uomini che si curano in maniera esagerata. Nel frattempo le pupe hanno fatto carriera e sono diventate influencer, il mondo social ha invaso il sociale». Il sale del programma sono due mondi che più lontani non potrebbero: «Pupe e secchioni vivono due modalità diverse di disadattamento, sono due pianeti opposti e il divario si è acuito ancor di più: oggi più che mai il secchione non ha idea di cosa sia un hashtag o di chi sia Chiara Ferragni. Io mi sento un conduttore che oscilla tra il narratore del Rocky Horror Picture Show e l’entomologo: al microscopio valuto questi curiosi insetti, questi essere umani così particolari».
Aleggia l’ombra trash, Ruffini assicura che il rischio non c’è: «È un docureality ma anche un game con l’eliminazione delle coppie in gara, è una trasmissione elegante, un programma hard pop, credo sarebbe garbato tantissimo a Andy Warhol. Il mio registro è di non ridere mai “sulla” persona, ma “con” la persona. Mi impegno da sempre contro il cyberbullismo, quindi voglio levare il dubbio che ci sia qualche volontà di prendere in giro o mortificare i concorrenti, sarebbe di cattivo gusto». Oggi gli edonisti sono trend topic rispetto agli intellettuali… «Una volta per eccellere bisognava parlare di fisica quantistica, di Einstein e Kant; oggi invece se a tavola citi Walter Chiari ti scambiano per secchione, se tieni il cellulare in tasca a cena sei un letterato». Lei si sente più pupo o secchione? «Tremendamente secchione, io che pure faccio i cinepanettoni e Colorado, però posso snocciolare tutti i film di Kubrick e so che Taranto è in Puglia… se io sono colto, siamo messi male».
La lezione che ha imparato dal programma? «Una conferma piuttosto: non è detto che chi sa tante cose sia per forza intelligente. Dei secchioni mi ha incuriosito molto il fatto che ci siano ancora persone così distaccate dalla vita sociale; delle pupe il fatto che questa esibita ostentazione di forme nasconda grande fragilità e insicurezza». Internet doveva migliorarci, invece è divento strumento di distrazione di massa: «Il web è il grande bluff di quest’epoca, ci avevano detto che con Google potevamo attingere al sapere universale, invece giriamo intorno sempre alle stesse 4 o 5 cose, il livello di approfondimento si è abbassato. La cultura invece è l’arma migliore per essere liberi: con la cultura si può vivere meglio, amare meglio, anche votare meglio: il voto di chi ti dice che I promessi sposi li ha scritti Robin Williams vale come il tuo».
La comicità oggi per un comico è difficilissima: «Tutti giudicano su tutto; questo Super-Io, questo Super-Uomo che si è impossessato di noi ci rende insopportabili, ci prendiamo tutti troppo sul serio; è l’epoca in cui sulla pagina Facebook della Torre di Pisa ci sono i giudizi come al ristorante: 4,8 stelle su 5; è l’epoca del pubblico che ti dice: perché ridi? La vera censura arriva dalla gente, da questo sistema fascio-social che non ti fa dire più niente; se fai una battuta sugli sgabelli, l’associazione italiana degli sgabelli insorge. Hanno vinto loro, ha vinto la gente, perché un comico non può fare satira sul suo pubblico».
Renato Franco, Corriere.it