Neri Marcoré: «Non voglio rimanere prigioniero delle imitazioni. La politica? Di sinistra, ma disilluso»

Neri Marcoré: «Non voglio rimanere prigioniero delle imitazioni. La politica? Di sinistra, ma disilluso»

Il Comune di Roma chiede 25 miliardi da investire in grandi opere. Tra queste: realizzare una funivia che collega piazzale Clodio a Monte Mario; soppalcare il Colosseo per realizzare nuovi parcheggi; tappare con lo stucco tutti i fori imperiali. Una di questa è vera, indovinate quale. È il premier Conte secondo Neri Marcoré, che quest’anno apre ogni settimana diMartedì con la sua satira leggera e graffiante al tempo stesso.

L’anno scorso da Serena Dandini immaginava il presidente del consiglio come un amministratore di condominio, oggi come lo vede per Floris?
«Ho immaginato un contesto diverso, una sede più istituzionale come il consiglio dei ministri, gli spunti di satira vengono dettati dall’attualità. Conte ci sarà anche nella prossima puntata (martedì su La7), ma non mi porterò dietro questo personaggio per tutta la stagione. E non è detto che faccia altre imitazioni, di personaggi diversi. Farò anche dei monologhi, la regola è che decido di volta in volta».

Cosa l’ha spinta a ritornare in tv?
«Ho dovuto vincere la mia titubanza, che non era legata al contesto televisivo, ma al fatto che già l’anno scorso, dopo 7 anni di pausa, avevo ricominciato a fare satira e imitazioni agli Stati Generali con Serena Dandini, e pensavo che fosse una parentesi aperta e richiusa. Ho capito che da parte mia c’era invece da vincere anche un senso di pigrizia che mi pervadeva; l’idea di confrontarmi e rimettermi in gioco mi frenava. L’opportunità e lo stimolo di portare in scena qualcosa di diverso mi hanno convinto a riaprire la parentesi».

L’impressione è che lei trovi sminuente fare imitazioni, nonostante certi personaggi — come Alberto Angela o Gasparri — siano stati straordinariamente azzeccati e popolari.
«Non credo sia sminuente, ma non ho mai voluto rimanere attaccato al mondo delle imitazioni, era qualcosa che volevo superare anche se l’ho fatto per tanto tempo. Trent’anni fa era tutto quello che sapevo fare, adesso è solo una parte della mia attività artistica. Le imitazioni sono state la mia chiave d’accesso al mondo dello spettacolo, ma con il tempo ho aggiunto anche altro: il teatro, il cinema, la conduzione, la musica».

Più i politici vengono imitati e derisi, più aumenta la loro popolarità. Non è un paradosso?
«Andreotti diceva: nel bene o nel male purché se ne parli; è una regola che vale ancor di più oggi che siamo nell’epoca della comunicazione esasperata e dei social, dell’eccesso di informazioni, dunque chi riesce a svettare sugli altri in qualsiasi modo ne ha sicuramente un vantaggio. La satira però non sposta voti, amplifica solo la portata di un personaggio e lo rende più conosciuto. Noi li mettiamo alla berlina, poi sono loro che si giocano il loro destino politico con quello che fanno o non fanno».

La satira non sposta voti, ma c’è chi chiede segua le regole della par condicio.
«Il manuale Cencelli non ha senso, non ci devono essere regole o obblighi. Io non nascondo le mie idee politiche, ma sono due piani diversi».

La politica di oggi che sentimenti le suscita?
«La sensazione che abbiano preso uno spazio enorme lo slogan, il populismo, la retorica. E in tante chiacchiere si faccia fatica a trovare una visione, una direzione, uno spirito critico. C’è un appiattimento verso il basso, l’inseguimento alla pancia del paese, che essendo pancia cambia di umore molto repentinamente. Sento la mancanza di una visione che si proietti oltre il dopodomani e superi le miserie quotidiane. In generale c’è stato un decadimento della qualità del lavoro nella cosa pubblica, l’impreparazione non viene stigmatizzata, anzi sembra un valore. Il mio modo di vedere la società ideale è quello che una volta chiamavamo sinistra, ma oggi vivo una fase di disillusione».

È più difficile oggi fare satira?
«Sì, perché oggi tutti i politici hanno un canale personale di comunicazione attraverso i social, forniscono molto materiale alla satira, ma il brusio di fondo è più alto, le notizie hanno una scadenza molta ravvicinata, l’attualità si limita ai due giorni precedenti e i fatti di una settimana prima diventano vecchi in un attimo».

C’è un’imitazione a cui in qualche modo è più legato?
«Per me partono tutti dalla stessa posizione, poi è il pubblico che decreta il successo di un personaggio o di un altro. Le imitazioni portano popolarità, un successo immediato, ma più superficiale rispetto al lavoro al teatro o al cinema. Fare satira un anno dopo l’altro non mi attira, non inseguo la popolarità a tutti costi che è quella che ti danno la comicità e la tv. Per questo cerco di mediare tra tutto. Nella mia torta ideale la farina è il teatro, le uova il cinema, le imitazioni il lievito: Q. B. Quanto basta».

Renato Franco, Corriere.it

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