È stato il ritrattista dei momenti di verità. Franca Sozzani lo lanciò perché lo considerava un maestro quando ancora era sconosciuto
Ha liberato le donne da quello che chiamava «il terrore della perfezione», di non essere «abbastanza» qualcosa: abbastanza giovani, abbastanza bene, abbastanza alte, abbastanza tutto. Peter Lindbergh, il maestro della fotografia di moda, scomparso all’età di 74 anni, è stato il ritrattista dei momenti di verità. Le sue modelle — Christy Turlington, Patitz, Helena Christensen, Monica Bellucci, Eva Herzigova, Naomi Campbell — non erano «mannequin» sulle quali dipingere trucco e posare abiti ma donne autentiche, vive, dotate di personalità e vita è individualità. Le stylist portavano sui suoi set dei container pieni degli abiti più belli e lui insisteva per vestire le modelle di una t-shirt bianca, jeans, capelli bagnati e meno trucco possibile per lasciare che fossero per una volta se stesse: e anche quando fotografava gli abiti c’erano sempre dentro delle donne, una diversa dall’altra, non dei bellissimi manichini surgelati nella loro astrazione.
Non amava il digitale
Le sue foto sono nelle collezioni dei musei perché un Lindbergh si riconosce subito: il bianco e nero con i neri profondissimi come petrolio e la scala de i grigi con la grana inconfondibile della pellicola — non amava il digitale — e soprattutto la vita. La vita dei suoi soggetti, la loro libertà: Lindbergh, tedesco dell’Est, era un uomo dall’aspetto roccioso, alto e grosso con le manone da orso e il sorriso che tra amici si apriva però largissimo, lasciando spazio a una risata sincera inconfondibile. Una che di moda — e di molto altro — sapeva tutto, Franca Sozzani, lo lanciò perché lo considerava un maestro quando ancora era sconosciuto. Aveva visto la finezza della sua composizione, aveva capito per prima quanto fosse Moderno l’amore di Lindbergh per gli spazi industriali in disuso, retaggio della sua fine di tedesco orientale.
L’espressione della verità
La moda perde un maestro assoluto e la fotografia uni dei suoi artisti più dotati, dal segno inconfondibile. Un segno grafico ma anche di umanità: fotografava persone e lo faceva come un regista cinematografico — consumava pellicola forsennatamente sul set, i suoi provini a contatto mostrano delle lunghissime sequenze per catturare l’espressione giusta, l’espressione di verità. L’unica che gli interessava davvero.
Matteo Pesivale, corriere.it