Con intelligenza e ironia, Daniel Brühl denuncia il narcisismo dell’attore e, nella cronaca di un duello verbale, parla del suo paese e della sua città, in cui il divario fra i ricchi e i poveri diventa sempre più grande.
Cosa spinge un attore di fama internazionale e con una filmografia smisurata e variegata a fare anche il regista? Ambizione? Narcisismo? Una vocazione innata o una chiamata tardiva? Nel caso di Daniel Brühl, dietro al “grande salto” ci sono il coraggio e il desiderio di sottolineare il totale egocentrismo di una categoria professionale che manda l’everyman in visibilio ma contemporaneamente lo irrita, oltre alla voglia di parlare non soltanto di sé ma di un paese intero (La Germania) e di una città (Berlino) ancora divisa in due, anche se non più geograficamente ma “trasversalmente”. Ma andiamo con ordine. Una mattina una superstar si sveglia nel suo attico e superattico in uno dei quartieri più cool di Berlino, fa un po’ di esercizio fisico, si prepara una colazione perfetta, si concede un po’ di small talk con la babysitter di lingua spagnola e studia per un provino che avrà luogo a Londra poche ore più tardi. La superstar è agitata ed emozionata, perché vorrebbe ulteriori ragguagli sul personaggio che dovrà interpretare (in un probabile cinecomic) e, prima di recarsi in aeroporto, entra in un caffè e si imbatte nella sua nemesi, un omone che conosce la sua carriera, abita nel suo stesso edificio ed è intenzionato a distruggerlo.
Tutto qui? – dirà qualcuno. Ebbene sì, tutto qui, perché uno dei cattivi di Bastardi senza gloria nonché il giovane protagonista del cult movie Good Bye, Lenin! sceglie di non rendersi la vita facile innanzitutto optando per un dramma da camera, che acquista progressivamente mordente perché sfiora la commedia nera e il thriller, ma è pur sempre ambientato nello stesso luogo, ha un ritmo non certo incalzante e affida la tensione al dialogo, o meglio a una partita a tennis verbale nella quale il giocatore più scarso è proprio la star. Il buon Daniel mette in discussione il suo percorso artistico dall’inizio alla fine e, senza pietà, identifica nell’attore di cinema un individuo incapace di avere una coscienza sociale e di provare realmente empatia. Il Daniel del film, che adora i selfie con i fan e non rammenta nemmeno il nome della proprietaria di un locale che ha più volte frequentato, è stupido e stizzoso, e incassa a meraviglia i colpi di un gigante prima buono e poi minaccioso. Non ne comprende veramente la rabbia e reagisce serrando la mascella e digrignando i denti, e andandosene via ridicolmente come un’attricetta a cui qualcuno ha detto che non vale niente. Ma poi, ferito nell’orgoglio, il nostro ricompare, per essere mortificato e svalutato sempre più e annaspare come uno scarafaggio rivoltato.
Daniel Brühl non fa sconti nemmeno alla propria padronanza delle lingue e, come Bong Joon-Ho o Ken Loach o un buon regista indipendente americano, si allontana dal proprio vissuto e denuncia lo smisurato divario fra ricchi e poveri, e lo fa parlando di un crudele e squisitamente moderno fenomeno che risponde al nome di gentrificazione. Forse, nell’affrontare questo scomodo tema, il neo regista è troppo condiscendente e appena paternalistico nei confronti dei meno fortunati, e il personaggio di Bruno, interpretato da un sublime Peter Kurt, è certamente più a fuoco quando diventa quasi luciferino, o comunque inquietante come il Robert Walker de L’altro uomo, insomma quando tira fuori gli scheletri dall’armadio del fatuo Daniel o alla sua domanda: “Vivi nel mio palazzo?”, risponde risentito: “No, sei tu che abiti nel mio!”. Meno credibile quando sorride o suscita compassione, lo stalker che beve birra di mattina funziona quando è a metà fra un vendicatore e uno psicopatico.
Mentre il duello verbale va avanti, la regia si mantiene fluida, entrano in scena pochi ma buoni personaggi secondari e il ristorante comincia diventare un luogo sempre più angusto. Non vi riveleremo chi dei due protagonisti l’avrà vinta, quello che è certo è che, con grande sincerità, Brühl, seppure con grande ironia, “salva” la propria categoria. Gli attori, sembra dirci, restano “portatori di sogni”, ed essendo sulla bocca e sotto gli occhi di tutti, sono più esposti, ricattabili, criticabili e forse perfino più infelici delle persone comuni. Cercano emozioni forti e hanno bisogno di rassicurazioni da parte di donne che, ormai, hanno smesso per sempre di renderli il centro del loro universo. Certo, non hanno problemi economici, ma non sono troppo lontani, chiusi nelle loro torri d’avorio, da criceti che corrono impazziti su una ruota.
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