Il divulgatore: nel dopoguerra si cercava il progresso. Ora si parla di legge elettorale, mai dei veri problemi
Piero Angela, avrà letto Il Foglio… Un appello (con molte adesioni) al capo dello Stato perché lei venga nominato senatore a vita.
«Sì, ho letto. Ma io non c’entro niente. Ho scritto al direttore Claudio Cerasa: grazie, sono lusingatissimo, ma lasciatemi stare, desidero continuare col mio lavoro. In questo momento sono in pausa qui a Cinecittà, stiamo registrando “Speciale Superquark”. Faccio un altro mestiere. Non sono fatto per le gerarchie».
In che senso?
«Alla Rai ho rifiutato, negli anni, la direzione di un Telegiornale e di una Rete… Non sono fatto per certi ruoli».
Ma cosa è la politica per lei? Nel 2011 è uscito da Mondadori il suo «A cosa serve la politica?».
«Nel libro ho raccontato un fatto molto semplice. La politica, nei secoli e nei millenni, non ha mai concretamente migliorato le condizioni di vita della gente comune. Non ha mai prodotto ricchezza né benessere. La base è rimasta povera, ignorante, malata, analfabeta. Tutto è cambiato quando, sulla scena del mondo, sono apparse le macchine e l’energia che hanno moltiplicato pani e pesci. Quando mio padre era giovane, in Italia i contadini erano il 70% della popolazione, oggi appena il 4%, gli analfabeti erano l’80%, oggi c’è la scuola di massa. Oggi la politica può essere molto importante solo se favorisce questo processo: cioè gestire e distribuire bene la ricchezza che nasce da tecnologia ed energia. Ma se le maggioranze cambiano continuamente, si litiga e si parla solo di legge elettorale, nessun progetto vero diventa possibile».
Lei non vuole diventare senatore a vita, ma qual è oggi un progetto «politico»?
«Un pacchetto per il futuro di un Paese come il nostro dovrebbe essere composto da innovazione, tecnologia, educazione e valori. Può consentire uno sviluppo equilibrato e civile: la storia dimostra che i Paesi che hanno adottato tale formula sono quelli che stanno meglio. Anche l’informazione è importante: ma purtroppo, in Italia, segue troppo le lotte politiche dimenticando che la vera ricchezza è il benessere del Paese».
Cosa è che non va nella politica italiana?
«Facciamo l’esempio della scuola. Si parla continuamente di precari, di scuola laica o cattolica, di sicurezza degli edifici. Ma rarissimamente del vero problema: cioè come migliorare il livello e la qualità dell’insegnamento. E poi, in generale, in Italia non si premia il merito, il valore, l’autentica capacità. Il risultato? Francesco Giavazzi lo ha spiegato molto bene giorni fa sul Corriere della Sera: se la produttività è l’indice dell’efficienza di un Paese, ebbene l’Italia è ferma da quindici anni. Altri Paesi, con gli stessi mezzi, hanno saputo fare ben di più e assai meglio. Da cittadino vedo l’incapacità della politica italiana di far emergere le mille potenzialità che ha il nostro Paese, pieno di gente in gamba».
Manca un sistema Paese?
«Nel libro dico che l’Italia è ricca di straordinarie intelligenze ma manca del tutto un’intelligenza di sistema».
Qual è stato, a suo avviso, il miglior capitolo della politica italiana?
«Indubbiamente il dopoguerra. Lo spirito era diverso e, magari in modi anche rozzi, si cercava di ricostruire puntando sul progresso dell’intero Paese. Anche la classe politica ragionava così. Infatti si arrivò al boom, al benessere. Poi è andata com’è andata».
Cosa vede oggi?
«Un quadro in cui domina una distruttiva litigiosità».
Più nel centrodestra dominato da Berlusconi o più nel Pd di Renzi e dintorni?
«Non vorrei parlare di questo. Dico che io sono abituato nel mio lavoro a costruire, mettendo insieme le idee e i talenti, arrivando a una sintesi anche dopo aver discusso. Oggi la politica italiana sembra un continuo, direi patologico, gioco al massacro… una costante distruzione dei progetti degli altri. Così è impossibile mettere al centro il benessere del Paese, il futuro delle nuove generazioni. Ma la scuola, la lotta alla corruzione, il merito sono valori di destra o di sinistra? Sono collanti che consentono a una società di stare insieme, di non frantumarsi».
Lei cosa vota?
«Quello che mi pare. Lavoro in Rai da decenni ma non ho mai risposto alle lusinghe di tante, diverse sirene politiche. Penso di lavorare, divulgando, nell’interesse del mio Paese, con lo spirito… come si dice?… di un servitore dello Stato».
Paolo Conti, Corriere della Sera