Arriva al cinema il biopic, diretto da Lee Daniels, che racconta l’ultimo periodo della vita della straordinaria cantante, interpretata da Andra Day, premiata con Il Golden Globe
“Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate | Sono la regina di un reame di stracci | Sono la voce del sole sui campi di cotone | Sono la voce nera piena di luce | Sono la lady che canta il blues | Ah, dimenticavo… e mi chiamo Billie | Billie Holiday “, Sono versi che Stefano Benni ha scritto per rendere omaggio a una delle più grandi artiste musicali di tutti i tempi. Per l’anagrafe era Eleanora Flag o Elinore Harris, nata a Filadelfia, 7 aprile 1915, I suoi genitori, Sarah Julia Fagan e il musicista Clarence Halliday noto come Clarence Holiday erano due adolescenti non sposati quando la bambina venne al mondo. Al momento di scegliere il suo nome d’arte optò per il cognome d’arte del padre e il nome “Billie” in omaggio all’attrice Billie Dove. Già da questo inizio si evince quanto sia stata complessa la vita di Lady Day (il soprannome lo coniò, il sassofonista Lester Young). E trasportare sul grande schermo l’esistenza di cantanti geniali e tormentati risulta sempre rischioso. Lo stereotipo, la semplificazione, il trash sono dietro l’angolo. Così il regista Lee Daniels (Precious, Monster’s Ball); si concentra sugli ultimi 10 anni della vita dell’artista morta a New York, 17 luglio 1959, a soli 44 anni. Il risultato è “Gli Stati Uniti contro Billie Holliday”, al cinema dal 5 maggio, un film che ha nell’interpretazione di Andra Day il maggior punto di forza.
BILLIE HOLIDAY, STRANGE FRUIT E LA REAZIONE DEGLI STATI UNITI
Il 22 marzo di quest’anno il presidente degli Stati Uniti Joe Biden con la vicepresidente Kamala Harris, ha firmato la legge che ha reso il linciaggio un reato federale. Verrebbe da dire finalmente, visto che il film inizia con una terrificante didascalia che ci ricorda che il decreto per vietare questa pratica nei confronti degli afro-americani fu esaminato per la prima volta dal senato nel 1937 senza venire approvato. D’altronde sono spesso le prime pagine dei quotidiani a scandire il ritmo Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, oltre, ovviamente alla musica blues e jazz.. Nello specifico è la canzone Strange Fruit il catalizzatore dell’intera vicenda raccontata dalla pellicola.
A New York, una sera del 1939 al Il Cafè Society, al Greenwich Village, uno dei pochi locali in cui I neri potevano sedere al fianco dei bianchi, Billie decise di cantare una canzone di Abel Meeropol, poeta, scrittore, compositore ebreo-russo, scritta per protesta contro il linciaggio di due lavoratori di colore di una piantagione. “Non c’era nemmeno un leggero applauso nell’aria all’inizio- ricorsa nella sua biografia la cantante– poi solo una persona ha iniziato a battere nervosamente le mani e così tutti gli altri l’hanno seguito”. Così il brano si trasfigura in un canto di protesta e diventa il pezzo con cui Holiday chiude tutti concerti. Ma per il governo federale americano, quelle parole sono una minaccia, un’incitazione alla rivolta. Cosi, capitanata da Harry J. Anslinger (Garrett Hedlund) prende il via una campagna contro Billie. L’artista diventa il capro espiatorio di una dura battaglia contro la droga. Tuttavia, lo scopo finale ultimo delle azioni intraprese contro la cantante era impedirle di cantare Strange Fruite e dare voce a quel grido di denuncia.
ANDRA DAY, UNA MERAVIGLIOSA BILLIE HOLIDAY
Tra Jazz e Blues, Te alcol ed eroina, Tra FBI e Ku Klux Klan, Gli Stati Uniti contro Billie Holiday si ispira a un capitolo del libro “Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs” di Johann Hari, sceneggiato dal Premio Pulitzer Suzan-Lori Parks. Ma non sempre il passaggio dalla parola scritta all’immagine in movimento risulta vincente ed efficace. E se il film mantiene a tratti il fervore giornalistico dell’inchiesta di denuncia presente nel testo, lo stile piatto, il mix tra fatti realmente accaduti ed eventi di fantasia (assai presenti nella seconda parte dell’opera), talvolta confondono e rendono l’opera poco omogenea e febbricitante. Ma la performance attoriale di Andra Day è da antologia della storia del cinema. Risulta impossibile non emozionarsi quando la giovane star canta capolavori come All of me, Solitude, Them There Eye, Parimenti ci si strugge quando in guêpière e calze esce di casa, coperta solo da un cappotto maschile, Holiday si perde per le strade di New York alla ricerca di una dose. Oppure ci si indigna quando a Billie viene negata la possibilità in un hotel di salire in ascensore insieme all’amica e attrice Tallulah Bankhead, interpretata da Natasha Lyonne. Ottima anche la scelta Trevante Rhodes, nei panni di Jimmy Fletcher, l’agente federale afroamericano incaricato prima di incastrare e poi di pedinare l’artista. Insomma, al netto del cast azzeccato, il film risulta il ritratto incompleto e talvolta sfocato di un bellissimo angelo nero, fragile e coraggioso. Una donna, ferita dalla vita e dai traumi del passato, ma al tempo stesso capace di sfidare un sistema per poter far sentire la sua voce, anche quando non gradita al governo. E vengono in mente le parole scritte da Billie nella sua autobiografia, La signora canta il Blues: “Mi hanno detto che nessuno canta la parola “fame” e la parola “amore” come le canto io. Forse è perché so cosa han voluto dire queste parole per me, e quanto mi sono costate.”