L’ex vincitore di «Amici» è uscito con un brano nuovo, «Rimani». «È una canzone catartica, il racconto di un amore finito. Scrivere mi ha sempre aiutato a metabolizzare, anche quando tredicenne ero vittima della cattiveria dei miei compagni»
L’inflessione di Virginio, l’italiano pulito venato di allegria, non si piega. Non vacilla. Non si spezza nemmeno quando prestato ad un racconto difficile. «In questo periodo, non voglio usare la parola “positivo”. Mi pare abbia assunto una sfumatura negativa. Però,», dichiara, «Ci tengo molto a questa mia visione ottimistica»: all’idea che l’unione possa fare la forza, che l’umanità, se consapevole, possa essere capace di vincere i suoi aspetti più deteriori. Virginio, Virginio Simonelli all’anagrafe, lo dice senza retorica, senza pretese intellettuali o politiche.
Lo dice come avrebbe voluto dirlo a tredici anni, quando la cattiveria dei propri compagni di scuola ne ha minato la sicurezza. «Mi schernivano. Ero gracile, piccolo. Non avevo il fisico aitante che, forse, avrei dovuto avere», racconta, con la stessa voce calda e felice con la quale parla di musica, la sua. «Venerdì 2 aprile, esce Rimani, una canzone per me catartica. È un brano che amo definire cinematografico: ha un suo inizio e un suo finale, lo spannung in gergo», spiega l’ex vincitore di Amici, l’esordiente del 2006, in piedi sul palco dell’Ariston, tra le Nuove Proposte di Sanremo.
Rimani l’ha descritta come una canzone che l’ha riporta alle origini, ma quali sono queste origini?
«Sono i miei brani precedenti. Negli ultimi anni, ho sperimentato molto. Rimani mi ha riconnesso a quello che credo sia il mio spazio, artistico e umano. Scrivendo, ho finito per legarmi spesso a tematiche generali. Rimani, invece, è molto personale. Ciononostante, posso dire che questa canzone porta sé un sentimento di grande identificazione. Cosa, questa, che credo sia lo scopo ultimo della musica. È un brano ti fa sentire meno solo, come mi hanno scritto tanti fan sui social».
Ed è il racconto di un amore finito.
«È il racconto di una storia personale, una di quelle di cui spesso mi capita di scrivere nelle mie canzoni. È, però, l’affermazione di se stessi, della libertà all’interno di una relazione. Capita che si vivano rapporti che in qualche modo costringono alla stasi. Ci bloccano. Ad un certo momento, la paura dell’immobilità riesce a prevalere su ogni altro timore. Allora, ci si alza in piedi e si afferma il proprio sé. E questa mia affermazione è Rimani».
Perché scrivere d’amore in un periodo in cui l’esperienza dell’amore sembra esserci negata?
«La pandemia – e, mi creda, non ce la faccio più a dire questa parola – ci ha costretti a ragionare su noi stessi, a capire quali siano i nostri centri e i nostri fuochi. Non saprei dire se questo lavoro sia riuscito, ma so dire che l’ho fatto. Ho vissuto varie storie in cui, ad un certo punto, mi sono trovato davanti a un bivio: stare seduto e fare finta di niente oppure rialzarsi e cominciare a camminare. Dopo aver passato tanto tempo seduto, anche se in poltrone comode e bellissime, mi sono accorto di avere voglia di libertà».
Dunque, è una situazione fresca?
«Quasi. Raramente, riesci a tirar fuori una canzone mentre stai vivendo l’esperienza della quale vorresti scrivere. Rimani è arrivata subito dopo, una volta assecondato il bisogno di metabolizzare, una volta fatto un passo avanti per riguardare indietro con un certo distacco».
Il ritorno ad una scrittura personale sarà preludio di un album nuovo?
«Di un viaggio nuovo. Io sono un grande amante del pop, specie se declinato in chiave un po’ “drama”. Pare una minaccia, ma questo è solo l’inizio».
Lei scrive testi e musica per sé e per altri, come Laura Pausini. Come vive i due processi creativi?
«Per me, scrivere per me stesso o per altri è la stessa cosa: è il tentativo di immedesimarmi in una data situazione, e poco importa che l’abbia vissuta io o l’altro. Mi approccio alla canzone come ad uno scambio tra amici: ci si confronta e si trovano esperienze comuni. È la celebrazione della capacità empatica, che sta alla base del nostro essere animali sociali. È un raccontare qualcosa che ci preme sul petto, buttarlo fuori e portarlo alle persone».
Quando ha capito la prima volta che la scrittura sarebbe stata terapeutica?
«La prima canzone l’ho scritta a tredici anni, dopo episodi di quello che, oggi, sarebbe chiamato bullismo. Quando sei piccolino, molto magrolino, sei gracile e hai una sensibilità spiccata, perché più aperto nei confronti del mondo, la sensibilità ti rende vulnerabile. Mi sono trovato vittima dello scherno di altri ragazzi e ho potuto superare tutto questo solo grazie alla musica, perché la musica mi ha permesso di parlarne, di vincere la timidezza. La musica mi ha sempre salvato».
Quand’è successo, il bullismo?
«Già alle scuole medie. Erano gli albori dell’adolescenza, quella fase in cui tutto è nuovo e tutto fa male, perché non hai struttura. Ricordo, allora, una mia grande chiusura nei confronti del mondo esterno: non volevo aprirmi. La musica è stata la mia sola valvola di sfogo. Più avanti, duranti il liceo, ho avuto attorno a me persone attente: un insegnante di italiano con cui parlavo spesso».
E la famiglia?
«In questo uragano di cose, io sono stato molto fortunato. Ho avuto una famiglia molto attenta, che osservava. Osservava nei limiti del possibile, perché i genitori non sono supereroi e spesso i figli fingono. Con la musica, la terapia, con il successo, ho cominciato a fare un percorso, che mi ha portato ad andare nelle scuole, dove mi sono legato ad un’associazione nata in un liceo di Lecce, Ma basta bullismo».
Perché ha deciso di parlarne, non a livello mediatico ma a livello locale, ai ragazzini?
«Perché c’è molto pudore rispetto al bullismo. Dire che c’è un problema pare significhi mostrare il fianco, ma io credo sia il contrario. Dire che c’è un problema significa cercare una soluzione che possa cambiare le cose. Con questo stesso spirito, ho partecipato alle attività dell’associazione Le cose cambiano, versione italiana dell’It gets better statunitense, la stessa It gets better cui ha mandato un video anche Barack Obama. Bisogna condividere, per non sentirsi soli e per sentirsi più forti».
Quando è arrivata la consapevolezza e, insieme, la voglia di condividere?
«La consapevolezza e la capacità di parlarne è arrivata, soprattutto, con il grande successo. Mi sono sentito molto grato. Per me, musica ha sempre significato essere forti insieme. Condividere quest’esperienza personale, raccontata anche nelle mie canzoni, mi ha permesso di dare un seguito ideale a questa mia visione. E, credo, abbia aiutato altri».
Chi, su tutti?
«I ragazzi, anche quelli inconsapevoli del dolore che il bullismo arreca loro. Quando hai compagni di scuola che ti fanno sentire lo sfigato di turno, cominci a crederci. E, quando senti una persona che ammiri vivere le stesse cose che hai vissuto tu, ti senti meglio, ti senti forte. Capisci che è difficile rimanere in piedi sotto i colpi altrui: richiede una struttura che oggi sai di avere».
Bullismo è tutto e il contrario di tutto. Perché i suoi compagni si sono accaniti su di lei?
«Nel mio caso, si sono mescolate tante questioni. Oggi, l’avremmo chiamato body shaming. Ero molto, molto magro. Non avevo un fisico aitante. Era un momento complesso, quello in cui hai anche i primi approcci sentimentali, le prime cotte, i brufoli e i tratti distintivi di un adolescente. Mi sono sentito molto a disagio».
I social hanno drasticamente facilitato il dilagare del bullismo.
«Va molto di moda la cattiveria. Il cinismo, forse. È l’atteggiamento di persone insoddisfatte. Nei ragazzi, però, vedo grande consapevolezza di tutto questo. La cattiveria gratuita dei social è cattiveria da intrattenimento: figlia del vuoto, la si usa per passare il tempo, per placare le proprie insoddisfazioni. Fondamentalmente, è l’arma degli sfigati. Sono persone che hanno carenze, di ogni tipo. E mi dispiace che mostrino questa brutta faccia dei social, perché a me i social piacciono molto. Credo ci uniscano in maniera speciale, nuova».
I social, però, hanno anche fomentato un uso furbo del bullismo, delle etichette. Come a dire: «Saltiamo tutti sul carro del vincitore».
«I ciarlatani sono ovunque. Metaforicamente parlando, credo che quando si affronti una tematica e la si porti a conoscenza di tutti, questa diventi una fionda. Viene tirata indietro e lasciata andare, proiettandosi dalla parte opposta. Bisogna dare tempo a questa fionda di tornare nel mezzo, ad un equilibrio. Bisogna dar tempo alla cultura generale di far diventare la fionda, il bullismo cosa comune, di cui si parli con normalità».
I programmi tv sono un metodo efficace per parlarne?
«Parlarne non è mai sbagliato. Bisogna, però, cercare di avere un equilibrio quando se ne parla, perché è molto difficile per una persona che non vive qualcosa comprenderla appieno. Le parole, la musica, i libri, i giornali, i programmi tv possono essere tutti metodi efficaci se usati correttamente».
Negli anni, è stato molto attivo sul fronte dell’impegno civile, e non solo per quel che concerne il bullismo. Si è battuto anche per sensibilizzare il pubblico sul tumore alle ovaie, cosa rara.
«Lo è, e me ne dispiace. Credo che gli uomini dovrebbero prendere parte più spesso a queste iniziative. La loro partecipazione a queste cause, come un etero che si batta per i diritti Lgbtq+, avrebbe un valore aggiunto. Battersi per dei diritti che troviamo giusti, anche se non ci riguardano in prima persona, è cosa fondamentale e non voglio smettere di farla».
Da dove nasce questo impegno?
«Non voglio sembrare Chiara Ferragni, essere famoso non è mai stato il mio obiettivo. Volevo fare musica, la popolarità è venuta dopo. Ho deciso, allora, di sfruttare il tramite della mia visibilità. Non siamo soli su questa Terra. Siamo in tanti, e dovremmo cercare di starci bene. “Il mondo”, come recita saggezza popolare, “È pieno di stronzi, non c’è bisogno ve ne siano altri”. Diamoci da fare per far sentire persone più forti e felici le persone, perché da essere umani è questo che noi tutti vogliamo».
Qual è, allora, la sua felicità?
«In questo momento specifico, la mia idea di felicità è tornare sui palchi e fare concerti. La mancanza della musica dal vivo, del lavoro ci sta logorando dentro. Spero ci possa essere di nuovo tutti insieme e tutti sereni, perché così non se ne può più. Voglio avere fede nel vaccino».
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