Intervista a Pif, torna Il testimone

Intervista a Pif, torna Il testimone

Quella telecamerina — con cui quattordici anni fa ha inventato un programma che, semplicemente, prima non esisteva —, è un po’ il superpotere di Pierfrancesco Diliberto, per tutti Pif. Era un bambino timido, introverso quasi. Eppure con quella telecamera è riuscito negli anni a fare ogni tipo di domanda, vincendo qualunque pudore. «Il testimone», ora, torna (prodotto da Wildeside) e inaugura da oggi un nuovo canale, Sky Documentaries. «Mi onora. È un programma stancante, ma continuerò a farlo finché campo».

Che effetto le fa ripensare a tutto quello che è successo da quando aveva iniziato?
«Fa impressione. Avevo cominciato a 34 anni, adesso ne ho quasi 50. Quando mi inquadro faccio dei primi piani stretti e si vede la differenza: le rughe, i capelli bianchi, i peli dal naso che prima non c’erano… Ma anche se si vedrà il mio evidente declino fisico, continuerò. Poi, qualunque cosa faccia, la gente che mi ferma mi dice: “Tutto bello… ma “Il testimone”?”».

Il tempo che è passato ha cambiato qualcosa?
«Sono cresciuto. Questo programma è stato involontariamente all’avanguardia: ero una sorta di antenato degli youtuber. Questo modo di comunicare è diventato uno stile. Solo che poi loro mi hanno sorpassato 15mila volte».

Rispetto al 35enne di allora, il quasi 50enne di oggi è anche un papà.
«Sì. Non ho ancora capito che tipo influenza avrà sul mio lavoro… tendenzialmente i bambini mi sono sempre piaciuti, li ho inseriti nel primo e nel secondo film. Vedremo se questa cosa mi cambierà anche nel lavoro».

Era davvero un bambino timido?
«Certo. Quando con i miei genitori andavamo a trovare i miei zii e cugini e dovevo salutarli tutti venivo preso dall’ansia: ero diventato famoso perché una volta arrivati restavo in macchina e scendevo un’ora dopo. Mia madre per farmi socializzare mi iscriveva a corsi di calcio ma non ci andavo mai: l’idea di conoscere nuove persone mi dava ansia. Questa cosa mi è rimasta».

Come si pone di fronte a un complimento?
«Mi imbarazzo. Se me li scrive, anche gente importante, passa una settimana prima che risponda: non so come farlo».

Esempi?
«Mi aveva scritto un complimento Gabriele Muccino: lo facevo vedere a tutti ma a lui non rispondevo. Ci devo pensare, devo elaborare cosa voglio dire… alla fine mi ha chiamato per dirmi se lo avevo ricevuto».

Non male.
«L’ho fatto anche con Paolo Sorrentino. Mi aveva scritto una cosa molto bella di cui andavo fierissimo. Preso dall’emozione, gli avevo risposto “Grazie!”. Quando mi ha visto, tempo dopo, mi ha contestato la brevità e la freddezza del mio messaggio. Si era offeso. “Ma ho messo anche il punto esclamativo”, gli ho detto. Per me è una cosa enorme, però capisco che è un mio problema».

Quindi è vero, la telecamera è il suo superpotere.
«Mi aiuta tantissimo, divento molto più empatico. Infatti le persone si aspettano che lo sia anche nella realtà. Vista la mia incapacità di relazionarmi nella vita privata, già riprendermi mi fa superare un trauma. Inoltre non devo comunicare a un cameraman cosa voglio che inquadri e cosa no. Nella telecamera ho trovato poi una giustificazione per le domande che un timido nella vita non farebbe mai».

Le piacerebbe fare un documentario per il cinema?
«Un tempo ero troppo preoccupato dal fatto che le mie riprese al cinema potessero far venire il mal di mare. In realtà certe puntate avrebbero una dignità cinematografica. Sono io che forse mi sottovaluto e non mi butto contro lo snobismo del mondo cinematografico».

Dunque esiste ancora?
«Io lo percepisco. Forse paradossalmente perché sta crollando quel tipo di mondo, ma c’è ancora una vecchia generazione che te lo fa avvertire. Ma anche dei giornalisti si arrabbiarono per i miei riconoscimenti per la lotta alla mafia. C’è sempre qualcuno che si innervosisce quando pensa che sei entrato nel suo mondo».

Lei lo ha fatto, anche con un format come questo, nato nella cucina di casa sua.
«E con il programma base del Premiere, quello con poche funzioni. Se penso a come è partito tutto mi commuovo: nessuno aveva idea di cosa stessi facendo, solo io. Mi piacerebbe avere questo coraggio anche nel cinema. La mia prossima scommessa lavorativa sarà sporcare, essere irriverente nella tecnica anche al cinema».

Come sceglie i reportage da fare?
«Mi piacciono gli argomenti non da prima pagina: non voglio l’ansia dello scoop, preferisco affrontare quelle cose che non si sarebbero mai lette, se non di sfuggita. E raccontarle a modo mio».

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