“Mi ero perso il cuore”, esordio in solitaria del frontman dei Marlene Kuntz, è un lavoro dalle atmosfere alt-folk e intimiste, distante dalle sonorità della sua band. Ne abbiamo parlato con lui
È uscito lo scorso venerdì “Mi ero perso il cuore”, il primo disco da solista di Cristiano Godano, voce dei Marlene Kuntz, una delle più solide e valide realtà del panorama indipendente italiano.
Tredici tracce che compongono un disco molto intimo, dal sound alt-folk, cantautoriale potremmo tradurre in italiano, se non fosse che il nostro cantautorato già da tempo si è arenato in qualcosa di estremamente diverso, tant’è che a fare dischi di tale impegno sono rimasti giusto artisti della caratura ed età di Godano, che ormai di candeline ne ha spente 54 quindi non è più un esordiente, anche se l’entusiasmo con il quale racconta questa avventura sono quelli del debuttante orgoglioso del proprio lavoro.
Ascoltando il tuo disco la prima impressione che ho avuto è che c’era una forte necessità di scrivere e cantare queste canzoni e farlo da solo.
“Ho accumulato una sessantina di spunti, alcuni molto a fuoco, quasi già nella forma che poi si sente, nel corso di tre anni circa. L’esigenza era proprio di natura musicale, io quando strimpello per conto mio vado proprio nella direzione delle canzoni di questo disco, con un songwriting che si manifesta per quel che è, e c’era per me ad un certo punto l’esigenza di salvaguardare questa loro dimensione, perché è evidente che se io queste canzoni le avessi portate in sala prove coi Marlene sarebbero diventate un po’ altri pezzi, magari Riccardo e Luca avrebbero tentato di star dietro alla sensazione principale ma non è nelle loro corde sostanzialmente suonare in un certo modo ed io non potrei mai pretenderlo. Poi quando mi sono arrivati i testi è stata anche quella abbastanza un’urgenza ben chiara a me a livello istintivo, perché mi stavo rendendo conto di stare scrivendo cose abbastanza emozionanti prima di tutto per me; qua e là ci sono passaggi che quando poi li ho riascoltati a disco masterizzato mi hanno devo dire emozionato”
Lo hai intitolato “Mi ero perso il cuore”, più che il significato di questo titolo mi viene subito da chiedere se l’hai ritrovato e come si fa a ritrovare il cuore quando capita di perderlo.
“Nella canzone che apre il disco, dove poi questa immagine c’è, è proprio un passaggio, dico di averlo ritrovato, poi tendenzialmente credo che si perda e si trova, si perde e si trova, in un match incessante tra mente e cuore. Sul come, a me vien da dire che quando si subisce l’assalto dei pensieri che si fanno ossessivi, che diventano assillanti, quotidiani, hai certi tormenti nella testa che si inviluppano su se stessi e diventano l’unica cosa che gira nel tuo cervello, quando la mente è così prevaricante, io penso che serva la consapevolezza che ciò sta accadendo e una volta che hai questa consapevolezza ci sono proprio delle tecniche; io non sono un bravo discepolo di certi comportamenti rigidi o di autodisciplina, ma la meditazione mira essenzialmente a questo, a provare ad allontanare la mente per ritrovare il cuore, metaforicamente vuol dire riuscire a riconnettersi con le emozioni primordiali nostre, quelle meno filtrate dall’intelletto, quelle che più per certi versi ci fanno sentire parte essenziale e inerente della natura, perché poi l’esistenza è fatta di uomini, è fatta di animali, di piante…”
Paradossalmente uno dei brani più personali del disco forse è appunto “Nella natura”. In altri pezzi del disco sembra ci sia una ricerca plausibile di un certo equilibrio, del ritrovare qualcosa che si è perso, che tu chiami “cuore” ma che possiamo chiamare in mille modi, ma alla fine tutto si rifà alla natura dell’essere umano…
“Certo. Pensa che ho anche scoperto che in Giappone è proprio suggerita a livello terapeutico la passeggiata nel bosco, ma non la passeggiata fine a se stessa, ma quella con la consapevolezza che stai andando a rimescolarti con la natura, perché questo contatto con la natura veramente permette di allontanare la mente. Detta così sembra l’uovo di Colombo però è anche vero che queste cose vanno fatte con consapevolezza. Curiosamente io in questo momento ti sto rispondendo dai giardini di Cuneo e attorno a me ci sono alberi maestosi quindi sono nella natura”
Su Instagram hai scritto in un post che speri “che non siano in molti coloro che faticano a trovare i Marlene qua dentro” ma anche di cercare in questo disco Cristiano Godano; in realtà si sentono i Marlene, che evidentemente non possono non far parte di Cristiano Godano dopo trent’anni, ma c’è un qualche punto nella produzione di questo disco in cui ti è mancato non averli con te?
“No, in tutta onestà no. Detta così sembra una risposta fredda, però no perché ero contornato dalle persone giuste, persone delle quali mi fidavo nella maniera più totale, persone che mi facevano sentire a casa e questo era necessario perché, ripeto, questo mio disco nei miei intenti non poteva e non doveva evocare i Marlene. Poi, come giustamente dici tu, è ovvio che si sentano, ma d’altronde dei 150 pezzi del repertorio dei Marlene Kuntz un buon 70-80 sono miei, li ho portati io in sala prove e li abbiamo poi suonati insieme, cioè in realtà sono dei Marlene Kuntz perché democraticamente noi abbiamo sempre impostato la cosa così, ma molte canzoni derivano dai miei songwriting, quindi è ovvio che si senta questa cosa. L’importante è non ascoltare il mio disco cercando i Marlene urticanti, cercando i Marlene che fanno noise o queste menate qua perché quello sarebbe un approccio un po’ stupido”
Prevedi ancora altre avventure soliste in futuro senza i Marlene?
“Be, questo non lo nascondo, sarebbe stupido se dicessi che questo finisce qua, perché non lo penso. Però non sono nemmeno sicuro di dirti quando potrà succedere, io mi auguro di si ovviamente, perché io sono veramente orgoglioso di questo disco, credo di aver fatto una cosa che mi rappresenta e sento che suona bene, sento che le canzoni hanno una loro ‘perfezione’, sento che c’è un’ispirazione toccabile con mano. Semmai provare un’avventura nuova potrebbe addirittura mettermi in imbarazzo perché saprò di dovermi confrontare con un disco che è venuto bene, però dubito che non vorrò, ne dubito fortemente. Però in questo momento la prima cosa che ho in testa è di fare un disco molto molto bello anche con i Marlene Kuntz”
Hai ricevuto feedback da loro?
“Io ho solo ricevuto un feedback da Riccardo quando sentì i pezzi non masterizzati, devo ancora dargli il mio disco fisicamente, glielo darò a giorni. Io a loro non chiederò nulla, ma io non chiedo nulla a nessuno, se uno apprezza una cosa e vuole dirmelo sono contento, ma io non voglio mettere nessuno in imbarazzo nel dirmi ‘si, mi è piaciucchiato, però…’. Io credo che siano curiosi, su Spotify avranno buttato un orecchio”
Il tuo è un disco fortemente cantautorale come non se ne fanno più, mi verrebbe da dire, ma senti che il pubblico desideri ancora ascoltare questo genere di musica, perché le classifiche dicono altro?
“Lo scoprirò, io mi auguro che questo disco arrivi anche a chi magari si è un po’ sempre per pregiudizio disinteressato ai Marlene Kuntz, perché magari il rock di un certo tipo non interessa. Sono sicuro che dai 35 anni in su c’è un sacco di gente che potrebbe apprezzare questa cosa, l’importante è che sia messa in condizione di scoprirla e di ascoltarla. Sono consapevole di quello che dici, io non mi pongo nei confronti di queste cose né con una specie di pervicacia da perdente consapevole, tipo ‘faccio questa cosa perché vaffanculo’, no, la faccio perché so che è bella e può essere apprezzata e so che nel mondo queste cose si fanno, non sono mica l’unico che in questo periodo fa dischi solitari. L’alt-folk americano esiste da una decina d’anni e ci sono un sacco di musicisti che fanno queste cose, in Italia credo che un disco come questo non si senta, credo che il cantautorato italiano è un’altra cosa, è molto più pop, ha un suono, una delicatezza e un tipo di arrangiamenti che vanno altrove. Io sono semplicemente consapevole di tutto ciò in una maniera più neutrale possibile, io spero che molte persone lo possano ascoltare ma mi rendo conto che il gusto medio è un altro e, ripeto, io non sto mettendo in scena una specie di guerra contro i mulini a vento, sono consapevole di quello che faccio, sono consapevole che non tutti lo potranno cogliere ma sono fiducioso, perché questo disco potrebbe piacere a molte persone”
Tu sei in attività da oltre trent’anni ci spieghi in questi trent’anni fino ad oggi, lasciando perdere per un attimo il discorso del supporto fisico, come hai visto cambiare la musica italiana?
“Esiste il rap, esiste la trap, ma quello è proprio un campionato diverso, ci sono anche delle cose abbastanza fighe. Se poi faccio il confronto con il rap americano, io purtroppo sono strutturalmente, inevitabilmente, un po’ esterofilo, non perché me lo impongo ma perché i miei gusti da sempre sono un po’ così e sento che il rap americano mi piace di più, però ci sono cose di italiani che mi capita di sentire che sono sicuramente prodotte bene e alcune sono belle”
E riguardo questo nuovo cantautorato che chiamano indie? Che poi è la stessa matrice dei Marlene Kuntz ma decisamente distante da quello che facevate voi…
“Io non lo amo. Non dico queste cose da altezzoso, mi prendo il diritto di dire che a me proprio non piace, sento un suono unico dall’inizio alla fine, sento quest’attitudine catchy, che tra l’altro invidio, perché certi ritornelli ti si impiantano in testa proprio perché hanno un certo approccio, ma io non riuscirei a scriverli perché mi sentirei banale a scrivere certe cose, ma sento che funzionano. È tutto molto pop in una maniera che sento poco genuina, è un suono che funziona e molti cercano il suono che funziona, e questo mi sembra il segno dei tempi: la musica è diventata marketing e comunicazione. Poi ci sarà sempre l’eccezione che conferma la regola, ci sono ragazzi che fanno rock che hanno una visione vicina a quella che io penso sia la natura di un artista che, per definizione, è uno che esprime la sua personalità sperando di essere diverso dagli altri, di avere una sua cifra stilistica, mi sembra che al giorno d’oggi funzioni il contrario: ‘faccio la cosa che funziona. Qual è il suono che va? Quello? Devo farlo anch’io’ “
In tutto questo calderone c’è qualcuno che ti ha colpito?
“Non posso dire di aver accumulato abbastanza esperienza di ascolto per poter dire. Io Spotify ce l’ho da tre mesi (ho cercato di resistere a Spotify fino a questo momento, poi il mio disco usciva e avevo bisogno anch’io del mio canale), perché sapevo che nel momento in cui avessi aperto Spotify sarebbe successo quello che è successo con i cd, all’epoca abbandonai il vinile e ora se ascolto musica vado su Spotify, trovo il mondo, non mi soffermo, ascolto due robe qua, due robe là, credo che tutti facciano così, (è chiaro se esco “Homegrown” di Neil Young è diverso, lo ascolto dall’inizio alla fine, ma quello è uno dei miei punti di riferimento). Cercai una di quelle compilation itpop ed era una infornata di tutti i nomi che più o meno funzionano ed ho avuto la sensazione di ascoltare sempre lo stesso pezzo, erano tutti molto uguali; drizzai un po’ le antenne solo con i Canova”
Il momento che sta vivendo il mondo della musica, lo sappiamo, è molto particolare, e a questo proposito vorrei farti un paio di domande. il coronavirus ha messo in luce come il mondo della musica live fosse basato essenzialmente su lavoratori intermittenti. Un sistema più regolare avrebbe permesso un intervento da parte della politica?
“Indubbiamente, ma chissà se o perché non erano a posto questi lavoratori intermittenti. Cioè, è colpa dei lavoratori che non volevano mettersi a posto? Io per esempio posso dirti che non gira da sempre una buona sensazione, c’è qualche musicista che prova ad interessarsi, la maggior parte non ci capisce molto, siamo un po’ tutti con la testa per aria, però credo che non ci sia un solo musicista in Italia che ha fiducia nell’Empals, perché? Perché non funziona. È troppo radicale su quelle che sono le esigenze di un musicista. Un musicista che fa più di 40 date in un anno ne fa tante, e questo è il suo lavoro, ma 40 date non sono neanche lontanamente lo standard minimo richiesto dall’Empals per andare avanti ogni anno con le giornate contributive richieste. Cioè, l’Empals si aspetta che un musicista faccia 150/200 concerti all’anno e questa è proprio un’incapacità di cogliere l’essenza, le dinamiche di un lavoro che ha esigenze diverse. Forse le band di liscio e gli orchestrali fanno tanti eventi ogni sera, ma un musicista rock non è che può fare 200 date all’anno in Italia, non funziona così. Non so esattamente se sia colpa dei lavoratori o se proprio non c’erano le premesse…”
La seconda domanda è: che speranze nutri riguardo le tempistiche per tornare ai concerti come li conoscevamo fino a prima della pandemia?
“Io non posso dire altro che incrocio le dita e spero di svegliarmi a settembre/ottobre con una situazione che non sia peggiorata”
Agi