Che il debutto di Colorado andasse così bene, non se lo aspettava neanche il conduttore, Paolo Ruffini. 8,7% di share, 1,7 milioni di spettatori. In prima serata su Italia 1 stasera va in onda la seconda puntata e lui promette: «Sarà ancora più bella. Dalla terza iniziano ad arrivare gli ospiti, vedrete». L’edizione è la numero 20, la settima con al timone l’attore livornese. Accanto a lui Scintilla, cioè Gianluca Fubelli, e il duo PanPers. Più il grande ritorno: Belen Rodriguez. La squadra, aggiornata, conta 40 comici e Ruffini ora è anche capoprogetto (con Andrea Boin).
Avete battuto il rivale Made in Sud, che ha fatto il 7,4: contento?
«Contentissimo. Tutti eravamo euforici, come quando si fa Natale in famiglia. Hashtag: sempremeglio!»
Come si spiega il successo? L’anno scorso non era andato così bene
«Si vede che c’era grande attesa per vedere cosa avremmo combinato. Forse pure la voglia di ridere con qualcosa di semplice. E io che pensavo il contrario».
In che senso?
«La comicità sta vivendo un periodo tra i più bui in assoluto: la gente non ha voglia di ridere, c’è una censura popolare continua e una morale che neanche nel 1936».
Come ci si salva dalla censura popolare?
«Ci riesce solo Checco Zalone. Un genio. Non fa la parodia, ma la riproduzione della parodia. L’unico che al momento, e con merito, può permettersi di prendere un po’ in giro la gente».
La formula di Colorado invece qual è?
«È un varietà nuovo, simpatico e divertente e ti fa staccare la spina per un paio d’ore. Quest’anno più che mai: abbiamo aumentato i comici, ognuno ha meno tempo e più risate. Ha dentro talmente tanti tipi di comicità, che ci sarà di sicuro anche il tuo».
Mediaset sta sviluppando un nuovo programma comico: Colorado non basta?
«Probabilmente una trasmissione comica che riparta da zero è una buona idea».
Chi è il suo preferito del cast quest’anno?
«Federico Parlanti: una persona con sindrome di Down, brillantissimo. Viene dal mio spettacolo Up&Down».
Già, ci lavora da anni. Perché ha preso al cuore proprio la sindrome di Down?
«Mi colpisce che significhi giù, mentre a me stare con persone Down ha sempre dato felicità incontrollabile. A fine aprile pubblico un libro: Sindrome di Up, la storia di come con loro ho trovato confidenza con la felicità. Ho una passione sfrenata per i diversi, gli ultimi, quelli che arrivano un po’ dopo».
Perché?
«Mi piacciono, mi sento a mio agio, mi diverto. Sento di non dover dimostrare nulla. Nella dinamica di oggi, dove tutto è veloce, la lentezza è un sintomo di avanguardia, eccellenza».
La cosa migliore che ha fatto nella vita?
«Sognare quello che sto facendo, e amare incondizionatamente».
Perché non ha figli?
«Voglio essere ancora un bambino. Dovrei levare la parola essere, ma che casino».
La sua paura più grande?
«I ladri, lo sanno tutti».
Quindi a casa ha mille allarmi?
«No. Vivo in albergo da cinque anni».
È sempre dell’idea che le donne non facciano ridere come gli uomini?
«Sono dell’idea che le donne abbiano minor senso del ridicolo».
Cioè?
«Se Scintilla inciampa e cade, rido. Se cade Belen, mi viene spontaneo andare a soccorrerla».
Questo non è maschilismo?
«Se mai galanteria, e non me ne vergogno. Prendiamo un altro esempio, le torte in faccia: se uno la tira a me, le persone ridono. A Paola Cortellesi, si dispiacciono. Perché l’essere femminile ha una grazia e una predisposizione empatica verso il pubblico diversa. Quindi no: gli uomini e le donne non fanno ridere allo stesso modo».
Fiamma Sanò, Ilmessaggero.it