VANESSA INCONTRADA : “IN TV HO IMPARATO A SEGUIRE SOLO IL CUORE”

VANESSA INCONTRADA : “IN TV HO IMPARATO A SEGUIRE SOLO IL CUORE”

vanessa incontradaÈ un momento d’oro per l’attrice spagnola divisa tra le fiction e il ruolo di giudice a “Dance Dance Dance”: “Sono un’emotiva”
Della prima volta in Italia Vanessa Incontrada – classe ’78, nata a Barcellona, prossimamente su Rai 1 nella fiction Il capitano Maria – ricorda la difficoltà di lasciare la famiglia e gli amici per trasferirsi in un paese straniero: «Quando sono arrivata a Milano per fare la modella è stato molto doloroso. Intendiamoci però: io le cose non le faccio per sacrificio. Anche quando ero più giovane. Nessuno mi ha mai obbligata a fare niente».
Dopo le passerelle dell’alta moda, è toccato alla televisione: «Zelig è stato uno dei programmi più innovativi degli ultimi anni. E non lo dico perché c’ero anche io. Ora va bene pensare alla continuità, ma certe volte bisognerebbe limitarsi a rispettare il ricordo e l’affetto delle persone».
È stato il momento che ha dato una svolta decisiva alla sua carriera.
«Zelig per me è stato un’esperienza importantissima. Anche il rapporto con Claudio Bisio. Sono sintonie molto difficili da ritrovare. Un po’ come il primo amore che non si dimentica mai e con cui tendi sempre a fare confronti. Ecco, per me Zelig è stato questo».
Negli ultimi anni, si è data alla recitazione.
«In realtà l’ho sempre fatto. Non credo che un artista debba essere catalogato così rigidamente. In questi anni sto facendo altre cose perché mi arrivano delle proposte che mi piacciono e che trovo interessanti. Questo però non significa che ho lasciato la televisione, o che la voglia lasciare».
Ora anche giudice a «Dance Dance Dance» su Fox Life.
«Quando me l’hanno proposto, ho subito detto di sì. Prima di tutto perché mi interessava, poi perché lavorare con Sky e Fox è sempre un’ottima occasione: la loro è una visione molto diversa da quella che hanno le reti pubbliche. E poi perché volevo lavorare con Luca Tommassini, con cui ci conosciamo da tempo».
Si tratta di un programma molto innovativo, a modo suo.
«È un programma diverso da quello a cui sono abituata. Tutto il contorno che c’è – di montaggio, di musica, di costruzione e di preparazione – è una grande novità. Una cosa che, in Italia, non s’era mai vista».
La sfida più grande?
«Essere sé stessi. Puoi piacere o non piacere, ma non puoi fingere. Devi dire sempre quello che pensi, quello che ti arriva al cuore, quello che ti colpisce emotivamente».
Secondo Maria De Filippi, la televisione è un elettrodomestico. Non ha uno scopo educativo. Racconta la realtà. Lei che ne pensa?
«Maria è una donna di grande intelligenza e sa quel che fa. Se è arrivata dov’è arrivata, è perché sa farsi amare. Quando presenta è come se ti invitasse nel salotto di casa sua, insieme ai suoi amici. Ricordiamoci che viviamo in un paese di sessanta milioni di persone, e ognuno può guardare quello che vuole».
Quindi?
«Quindi non si può più dire “questo è giusto” o “questo non è giusto”. Non ti piace una cosa? Non la guardare. Personalmente non faccio distinzioni. È come con la musica: posso ascoltare un pezzo melodico come posso ascoltare i Pink Floyd. Questo, però, non mi fa essere più colta o meno colta».
La televisione però ha dato la possibilità all’uomo della strada, senza né talento né aspirazioni, di diventare protagonista.
«Non credo che sia solo la televisione. È la società. Viviamo in un mondo dove ormai sembra tutto molto semplice. Prendiamo Facebook. Su Facebook tutti possono dire la loro. Guardiamo, per esempio, quello che è successo a Bebe Vio. La realtà è che siamo diventati tutti giudici».
Una realtà pericolosa.
«Esatto. A lei sembra normale che alcuni personaggi della cronaca nera, che hanno fatto cose talvolta tremende, vadano in discoteca a fare serata? E questa non è colpa della televisione. Questa è colpa della società intera».
Perché secondo lei?
«Perché viviamo in un mondo morboso. Le faccio un esempio: questa estate ho avuto un incidente in autostrada. Mentre aspettavo l’arrivo dei soccorsi, le persone non vedevano me o il mio dolore. Mi fotografavano. E non perché non gli interessasse, ma perché non siamo più in grado di vedere oltre le apparenze la sofferenza di una persona».

La Stampa

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