Il secondo romanzo di Jonathan Bazzi, a due anni dall’esordio con «Febbre»
I corpi minori hanno una voce influente, e anzi dirompente, a volte disturbante, che ribalta e ridefinisce il mondo così com’è stato finora, disegnato dalla percezione dei corpi maggiori. Hanno conquistato uno spazio, un’angolatura, ed è il fatto nuovo più grande e rilevante del nostro tempo. È il fatto che fatichiamo ad accettare e che, ogni volta che si manifesta, e palesa che esiste un altro modo di vedere, un’altra rappresentazione della realtà, e lo fa talvolta con protervia (e come potrebbe fare diversamente, se niente ci spaventa più del nuovo) etichettiamo come politicamente corretto, cancel culture, suscettibilità, inusitata accortezza verso le minoranze: lo etichettiamo come la catastrofe culturale venuta a portarci via tutto, il Novecento, l’Occidente, il centro, l’identità, il sesso, il desiderio, il corpo, la biologia. Jonathan Bazzi, che ha un corpo minore, ha scritto il romanzo che dimostra quanto infondati sono i nostri timori di eradicazione dell’umanità, della carnalità e del desiderio.
Non l’ha fatto con questo intento, ma conta poco: il bel risultato questo è. Il suo intento era, semplicemente, raccontare una storia, e lo ha scritto nelle pagine finali di questo suo Corpi minori (Mondadori), che arriva due anni dopo il suo esordio, Febbre (Fandango): «Questa non è la storia di una disfunzione, patologia, è solo una storia, una ruota di possessioni ricorrenti e comuni, di paure che tornano per un motivo, noto, ignoto, e con cui fare i conti, mai una volta per tutte. Il fatto è che non puoi tenere fermo nulla di vivo – è dunque qui che finisce l’infanzia?». Non è la sola parte del romanzo in cui palesa i suoi intenti, facendo il solo errore di questo lavoro così vibrante e affascinante, che in quel punto manifesta una sfiducia verso chi legge, o anche solo un diritto non propriamente legittimo ad accompagnarlo. Per il resto, è vero che è soltanto una storia, e che parla della fine dell’infanzia, della grande mutazione che avviene nel protagonista quando la sua capacità desiderante si sbriglia, il corpo minore si risveglia, obbedisce agli impulsi peggiori, dimentica le correzioni, fa tutto quello che fanno i corpi maggiori e non si lascia inibire dalla sua forma, “dal senso del ridicolo” e da quello del pudore, dai buoni sentimenti.
Siamo alla fine del primo decennio degli anni Zero, a Rozzano, che anziché una periferia di Milano sembra il suo sottoscala, e il protagonista, ventenne, pur di lasciare la sua famiglia, che è povera a seconda di chi chiede aiuto (quando lo chiede lui è poverissima), si fidanza con un coetaneo ricco, capace di mantenerlo, e non lo ama, e s’illude di potersi far bastare la sopravvivenza che gli garantisce per restargli accanto. Crede che le scie desideranti possano convivere con “le esigenze parallele”. Crede che basterà avere un tetto e un amore scondito per fare la scelta che gli consentirà ditg trovare un ruolo.
Milano è “la città che sale, mentre Rozzano si estende verso il centro della terra”, è il posto che lo emancipa ma non lo libera. Ed è, soprattutto, la città che fa da vetrina alla nuova sottocultura giovanile, che Bazzi conosce molto bene e della quale qui racconta gli aspetti poco noti, i vestiti, i desideri, le liturgie, gli incontri. Il corpo minore ha, come il corpo maggiore, una ferinità, un egoismo, una sporcizia: macchie che non vengono raccontate né come la risposta a un trauma, né come una rivendicazione. Sono le macchie inevitabili dell’essere vivi. I corpi minori non sono altri libertini: sono altri corpi. Più liberi, forse, dai desideri indotti, ma più schiavi del senso di colpa che sanziona l’esuberanza.
Sono i corpi che sfuggono alla “intersezione tra il dato di fatto e la distorsione soggettiva, la provocazione data dall’ambiguità di una sovrapposizione, vero, falso, personaggio persona”. Una volta, su Facebook, Jonathan Bazzi scrisse: “Mi si consideri mezzo e mezzo, un inguacchio, spaiato, come volete. O non mi si consideri affatto sull’abaco del genere. Neutro, vuoto. Non interessato a definirsi. Ma non mi si metta tra i maschi”. Era la biografia acerba di un corpo minore che, rivendicando una separazione, sembrava chiedere un annullamento di tutto ciò da cui si separava.
Ora, invece, propone un affratellamento: “Io sono, noi tutti siamo quel punto neutro, inqualificato che osserva, ha sempre osservato, il trasparente occhio interiore a cui la nostra stessa esistenza è data in forma di scena – lì siamo, solo lì ci potete trovare”. Significa: abbiamo detto che i corpi maggiori erano costruzioni politico sociali, siamo pronti a dire che lo sono anche quelli minori, e allora dobbiamo tutti essere pronti a riconoscerci simili e uniti dalla fame di vita che abbiamo: è quella fame a farci umani, a dirci che cos’è il corpo, quanto rilevante è.
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